Il campionato 1992-1993 presenta per il secondo anno di fila i Bulls che superano quota 50 vittorie (57-25), ma soprattutto continuano la striscia aperta durante il 1991-92, ovvero non persero due partite consecutivamente per tutta la stagione 92-93.

MJ (che scrisse 64 punti contro i giovani Magic), vinse per il settimo anno la classifica marcatori con 32.6 punti di media. A questi si aggiungevano gli ormai consueti oltre sei rimbalzi di media e 5.5 assist. Risultò, per la terza volta in carriera, il miglior ruba palloni della lega con 2.8 “furti” a partita.

Il primo ed il secondo turno di playoffs non rappresentarono nessun tipo di problema per i Bulls (rispettivamente 3-0 contro gli Hawks e 4-0 contro Cleveland), ma quando si scontarono contro i Knicks di Ewing, Oakley e Starks (e di Pat Riley in panchina) Chicago finì sotto 2-0.

Jordan e compagni decisero di prendere la serie nelle proprie mani e con 4 vittorie filate tornarono sul palcoscenico piu’ importante dell’anno ovvero le NBA Finals.

Quì si scontrarono con il team dotato del miglior record dell’anno (62-20) ovvero i Suns di Charles Barkley.

Questi, già noto per le sue performances olimpiche, e passato in estate da Philadelphia 76ers ai Phoenix Suns per ambire ai massimi traguardi, disputa una stagione eccezionale, conducendo il suo team al miglior record nella stagione regolare, superando anche i Bulls, che sembrano leggermente appagati.

La critica elegge Barkley MVP, quale miglior giocatore della regular season, osando “ignorare” un Jordan che comunque si mantiene ai suoi livelli; nonostante l’eccezionale performance di Barkley, per molti suona come un tentativo di contrastare il domino assoluto in tutti i campi, anche mediatico, di Jordan e dei suoi Bulls.

La resa dei conti sarà nella Finalissima, cui giungono entrambe le squadre e che risulterà la più equilibrata tra quelle del primo three-peat. Jordan, tuttavia, non si farà intimidire dal truce “Sir Charles” (questo il suo soprannome): in sei incontri, metterà a referto la piu’ alta media di punti mai realizzata da un giocatore nelle Finali: 41 punti a partita.

Con i Bulls in vantaggio 3-2, si ritorna in Arizona per le sfide decisive: gara-6 sarà al solito molto combattuta e si arriva all’ultimo possesso con i Bulls palla in mano e sotto di 2 punti. Un’eventuale gara-7 li vedrà giocarsi il titolo in una partita secca giocata fuori casa.

Jordan è stato l’autore di tutti i 9 punti finora effettuati dai Bulls nel 4º quarto e, come logico, si incarica dell’ultimo tiro; raddoppiato dalla difesa di Phoenix, trova la lucidità, l’umiltà e la fiducia di affidare la palla a Scottie Pippen, il quale vede sotto canestro smarcato Horace Grant, che potrebbe comodamente appoggiare per il pareggio.

Tuttavia costui è in profondissima crisi di gioco, avendo segnato in due partite la miseria di 2 punti e avendo poco prima sbagliato diverse conclusioni facili. La palla viene quindi repentinamente ceduta a John Paxson, appostato sull’arco da 3 punti, per il tiro che varrà non solo il pareggio, ma addirittura la vittoria della partita e della serie: è il 3º titolo consecutivo.

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Michael dirà: “Questa vittoria mi pone su un piano diverso rispetto a Magic e Bird”, capaci di un doppio titolo, ma non di un three peat. Una situazione analoga si ripeterà in futuro, con Steve Kerr nei panni di John Paxson.

La crisi però è dietro l’angolo. Dopo aver ottenuto tutto ciò che era umanamente possibile ottenere come atleta, Michael Jordan annuncia a sorpresa il suo ritiro. Il 6 ottobre 1993 in una conferenza straripante di giornalisti al fianco di Jerry Reinsdorf, proprietario dei Chicago Bulls, e David Stern, commissioner NBA, comunica al mondo la sofferta decisione.

Lui stesso ammette in una dichiarazione: “Ho perso ogni motivazione. Nel gioco del basket non ho più nulla da dimostrare: è il momento migliore per me per smettere. Ho vinto tutto quello che si poteva vincere. Tornare? Forse, ma ora penso alla famiglia”.

A parte queste dichiarazioni “esistenziali”, a incidere sulla sua decisione sono soprattutto due fattori.

Il primo è legato alla vicenda del gioco d’azzardo e alle scommesse: MJ infatti fu al centro di parecchie inchieste su scommesse illegali di ogni tipo (venne anche ufficialmente richiamato da Stern e della NBA) ma ne uscì sempre pulito. Comunque furono pubblicate parecchie testimonianze persone che sparlavano di Jordan e della sua costante attrazione per le scommesse.

In un clima del genere MJ si trincerò dietro al silenzio stampa (dopotutto i soldi che usava erano suoi e li aveva vinti legalmente): un suo assegno era stato trovato in mano ad un allibratore sospettato di gestire partite truccate. Lui si difenderà affermando di non averlo dato certo a lui personalmente.

Il secondo motivo è la tragica morte di suo padre James, ucciso con un colpo di pistola calibro 38 ai bordi di un’autostrada del North Carolina, di ritorno dal funerale di un amico, allorchè decise di fermarsi sul bordo di una autostrada interstatale nella Carolina del Nord per riposarsi un pò.

Mentre stava dormendo, due criminali locali si fermarono, lo uccisero e rubarono la sua Lexus, che gli era stata regalata proprio da Michael. Gli autori del fatto furono rapidamente rintracciati poiché avevano effettuato alcune chiamate con il telefono cellulare della vittima.

Insieme alla perdita degli stimoli, è la morte del padre ad incidere sulla difficile decisione presa da Michael. James Jordan era stato un grande appoggio per il figlio, che gli era profondamente affezionato, e lo aveva sempre incitato, anche se avrebbe preferito vederlo giocare a baseball, il suo sport preferito.

Il mondo del basket è stravolto da questa decisione, e di colpo si ritrova senza il suo uomo simbolo. Più di tutti, sono i suoi milioni di fans in tutto il mondo a sentirsi all’improvviso orfani di ciò che aveva incarnato i loro sogni e le loro ambizioni, di un giocatore che era qualcosa di più di un giocatore, “trasformando la pallacanestro in una forma d’arte”.

Ciò porta anche ad atteggiamenti paradossali fra i più giovani: alcuni si presentano ai campi da gioco con il segno del lutto sulla canottiera. Evitando facili censure, si può concepire come la presa di coscienza che con il suo ritiro moriva tutto ciò che egli aveva incarnato, giacché nessun altro ne avrebbe potuto ripercorrere le gesta.

Non era solo un fatto tecnico: Michael Jordan è stato il primo “atleta globale”, cioè capace di canalizzare da solo l’attenzione di fans di tutto il mondo superando i confini di nazionalità, cultura, tradizioni sportive locali. Nell’ammirazione delle sue imprese ci si sentiva parte del respiro del mondo.

Superata infatti la disputa sul se fosse il giocatore migliore di pallacanestro di tutti i tempi, Jordan è ormai paragonato ad atleti come il pugile Muhammad Alì in quesiti del calibro: “Jordan è il miglior atleta di tutti i tempi?”.

Il 9 settembre 1994, un anno dopo il suo ritiro, gioca un’ultima volta al Chicago Stadium, prossimo alla demolizione, in una partita di beneficenza organizzata da Scottie Pippen, uno dei compagni di squadra “storici” e grande amico. Nel nuovo impianto, lo United Center, viene tenuta qualche giorno dopo la cerimonia ufficiale d’addio del giocatore, con il ritiro della maglia numero 23.

Davanti al nuovo stadio della “città del vento” viene posta una grande statua di Jordan impegnato in una schiacciata con una targa con le parole: “The best there ever was, the best there ever will be”, ovvero il migliore di sempre.

Continua…

[Fonti utilizzate: Wikipedia - joeiverson.com ]

3 thoughts on “Michael Jordan story: ‘Il terzo titolo e il primo ritiro’

  1. ” A questi si aggiungevano gli ormai consueti oltre sei rimbalzi di media e 5.5 palle rubate”

    Penso volessi scrivere “5.5 assist” :)

  2. bell’articolo magari la prossima volta fai meno copia/incolla da wikipedia…

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