Scriviamo di sport. Raccontiamo le gesta dei nostri idoli del presente e del passato, quelle che vengono generate all’interno di un rettangoli verdi numerati per decine, moderni colossei dove una palla ovale viene ricorsa da atleti sovrumani provvisti di casco e paraspalle, o di un diamante che solo verde non è, dentro al quale vengono sferrate potenti mazzate verso una piccola pallina bianca, oppure ancora dentro un palazzetto dal pavimento in legno, che muta in ghiaccio quando la struttura deve ospitare una differente disciplina sportiva, ed i cesti lasciano il posto a delle piccole porte.
Scriviamo di partite, campionati, titoli, schemi, analizzando con i mezzi che abbiamo e l’esperienza che ci siamo fatti negli anni che cosa permetta ad una squadra di eccellere e ad un’altra di fallire. Ci piace scovare il risvolto umano della storia di un atleta, capire da dove viene, perché è diventato ciò che è oggi, o per merito di chi. Gli Stati Uniti sono una fonte pressoché inesauribile per chi desidera andare oltre il giocatore di football, di basket, baseball e hockey. Perché dietro di lui c’è sempre un essere umano, con i suoi pregi e i suoi difetti.
Ci siamo preoccupati anche di trattare argomenti scottanti, roventi, perché attinenti agli sport che amiamo.
Pensando agli episodi più controversi non possono non venire a mente le vicende di Colin Kaepernick, che nel tempo hanno letteralmente spaccato in due l’opinione dei tifosi di football, frammentandola proprio come una vera squadra: attacco e difesa. La speranza è che quanto stiamo scrivendo possa non essere giudicato con fretta e superficialità, e confuso nel tentativo di promuovere una figura, perché il soggetto qui non è né il giocatore e tanto meno la caccia alle streghe all’epoca perpetrata da una Nfl in parte indignata verso chi, come lui, aveva osato rimanere seduto, o chinato su un ginocchio, durante l’esecuzione dell’inno americano.
Il soggetto non è l’esclusione di Kap dal suo precedente impiego, evento che negli anni ne ha dipinto tanto il martirio quanto la presunta avidità nell’approfittare delle ramificazioni della sua stessa denuncia. Il soggetto non è Donald Trump e la sua fine eleganza con cui l’attuale presidente americano ha definito gli atleti partecipanti alla protesta come “sons of bitches”, ed il soggetto non un’icona come LeBron James, a cui è stato detto di pensare allo sport, di stare zitto, e pensare a dribblare.
Il soggetto è l’adeguata comprensione del motivo per cui gli atleti afroamericani decisero di attuare nuove forme di protesta verso una situazione degradata, inaccettabile, ingiustificabile, che continua però a protrarsi nel tempo con troppo successo, senza che nessuno prenda i necessari provvedimenti.
Playitusa è un sito che scrive di sport americani, ma non esiste una sola buona motivazione per cui si debba strettamente attenere a questo. E ciò va ben oltre la mera opinione differente che una persona può avere rispetto ad un’altra nei riguardi di un determinato episodio. Nessuno, nella nostra redazione, impone di schierarsi per o contro Colin Kaepernick e tutti gli atleti che hanno deciso di mettere un ginocchio a terra, perché l’intento dell’esposizione extra-sportiva data all’evento sin dal suo verificarsi non era quello di insegnare cos’è giusto e cosa non lo è – una presunzione che mai e poi mai avremmo – lo scopo era semplicemente quello di farne comprendere le reali motivazioni, esattamente come stiamo tentando nuovamente di fare oggi.
Il nostro silenzio è difatti impossibile dinanzi ad una nuova dimostrazione del fatto che ci sono vite che contano meno di altre, e che le differenze sono tutt’oggi dettate dal colore della pelle. George Floyd, pace all’anima sua, è l’ultima vittima sacrificale che segue una cronologia sin troppo lunga, che il mondo ha conosciuto solamente davanti all’esposizione mondiale di quel filmato che rese pubblico il pestaggio di Rodney King nel marzo del 1991, al quale seguì la rivolta delle minoranze etniche che mise a soqquadro i quartieri meno frequentabili di Los Angeles dopo l’assoluzione dei quattro poliziotti responsabili dell’accaduto.
Colin Kaepernick si è inginocchiato all’esecuzione di un inno a cui non intendeva mancare di rispetto. Voleva invece sottolineare il fatto di non sentirsi incluso nel significato di quell’inno, ed i fatti ancora una volta, pagando il caro prezzo di una vita umana, gli hanno dato una ragione oramai sacrosanta. La persecuzione della minoranza etnica negli Stati Uniti non è assolutamente un concetto soggettivo. E’ oggettivo. La disparità di trattamento esiste. Le persone che ritengono quelle appartenenti ad un’altra razza come inferiori, esistono. Così come esistono presunti esseri viventi come Amy Cooper, il cui video ha fatto anch’esso il giro del globo in un amen, che strumentalizzano la paura che una persona di colore prova nei confronti delle forze dell’ordine trasformandola in minaccia, ben sapendo come un uomo afroamericano avrebbe potuto reagire dinanzi ad un temuta ipotesi di intervento da parte della polizia per qualcosa che non stava accadendo.
Ci sarà sempre chi dirà che LeBron James gli piace di più quando gioca a basket che non quando si occupa di faccende che non riguardano la Nba. A noi James piace ancor di più quando indossa una maglietta con scritto sopra “I Can’t Breathe” o “Black Lives Matter”, perché ci dimostra che non è solo un atleta in grado di deliziare le platee con giocate irripetibili, ma pure una persona con cervello, leadership, senso di protezione verso una comunità che ha perso qualsiasi partita sociale a cui abbia mai preso parte. Non ci accontentiamo di vederlo giocare, spegnere la televisione ed andarcene tranquillamente a letto. Perché LeBron James, nella sua insormontabile statura planetaria, è anche un essere umano che ha numerose ragioni di avere paura, perché un giorno la polizia americana potrebbe fermare suo figlio, suo nipote, un suo caro amico, ed infliggergli dolore e morte solo perché veste una pelle ritenuta inferiore ad un’altra, e che per tale motivo consegue in tristi presunzioni di crimine.
E come si potrebbe mai biasimarlo, quando il livello d’ingiustizia è così eclatante da non poter più essere sopportato nemmeno da chi sta scrivendo queste righe in questo momento, così lontano da quella realtà e così coscienzioso di essere addirittura privilegiato per essere nato con una pelle che mai è stata oggetto di discriminazione e persecuzione per secoli? Viviamo in un mondo dove il nero è ancora il colore sbagliato, diciamocelo pure apertamente, perché di giri di parole oramai non se ne può più. Però quando il nero ci offre lo spettacolo che tutti amiamo allora fa comodo a tutti. Ma quando un atleta si inginocchia all’esecuzione di un inno ci si scandalizza perché viene a mancare il rispetto per la bandiera e per le truppe che mettono la loro vita a rischio ogni giorno per la libertà di tutti (questo sarebbe un altro argomento oggetto di fertile discussione, ma non è questo il luogo adatto).
Tuttavia, non c’è alcun scandalo se il Dylann Roof di turno viene arrestato e semplicemente scortato alla centrale in manette dopo aver ucciso nove afroamericani con un’arma da fuoco dentro una chiesa. Il senso della protesta è esattamente questo: il fatto che Roof fosse bianco non presupponeva che arrivasse un poliziotto a pressargli un ginocchio contro il collo fino a farlo morire. George Floyd ed Eric Garner, che di certo non avevano ammazzato nessuno, avranno fatto qualcosa per meritarselo dando accesso ad un misterioso diritto che ha reso possibile togliere loro la cosa più preziosa che avevano: la loro vita.
Sottolineando che mentre il commissariato di Minneapolis brucia e nessun poliziotto è stato incarcerato per l’omicidio che ha commesso, crediamo di non dovervi nessuna spiegazione aggiuntiva.
Non accettiamo di restare esclusivamente attinenti allo sport giocato. Il nostro ginocchio rimane saldamente ancorato al terreno. Perché chi contribuisce al nostro divertimento ed intrattenimento non va lasciato solo contro un mostro con cui non potrà mai vincere, nel momento di maggior necessità. Perché ogni vita vale esattamente come un’altra. Immensamente tanto.
“Racism isn’t gettin’ worse. Is gettin’ filmed” – Will Smith
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.