Per la prima volta in vent’anni, quest’autunno non abbiamo ritrovato Kobe Bryant, Tim Duncan e Kevin Garnett al traning camp, circondati da microfoni e registratori, o impegnati nelle foto di rito; tre dei cestisti più iconici e carismatici di sempre lasciano il basket professionistico dopo aver dato e ricevuto moltissimo da questo sport.

Con la loro personalità ed il loro talento, hanno fatto innamorare del Gioco e ispirato migliaia di giovani appassionati in ogni angolo del globo, scrivendo pagine importanti della storia NBA, plasmando un’era dei canestri ormai declinata al passato, ma non per questo meno gloriosa.

Saranno eleggibili nella classe “2021” della Hall of Fame di Springfield, ma non dobbiamo per forza attendere così a lungo per poter ripensare alle carriere dei tre demiurghi che hanno traghettato con successo la NBA dagli splendori dell’epoca targata Bulls, al nuovo picco di popolarità odierno, recante il sigillo di LeBron James e Stephen Curry.

Della “Generazione X” –quella a cavallo tra la seconda metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio– rimangono ormai solo Paul Pierce (che appenderà le scarpette al chiodo tra un anno) e Dirk Nowitzki, ultimi mohicani di una leva cestistica che vanta tante stelle di prima grandezza, come Steve Nash, Ray Allen, Allen Iverson, Jermaine O’Neal e Tracy McGrady. Nessuno di loro però, sarà celebrato quanto Duncan, Bryant e Garnett.

Diversissimi nel modo di porsi e di stare in campo, Tim, Kobe e Kevin sono accomunati dall’essere stati giocatori di basket prima ancora che stelle; uomini cresciuti a pane e fondamentali, e per questo attenti ai dettagli che fanno la differenza, atleti capaci di onorare la loro splendida ossessione per la pallacanestro con continuità impressionante, chiedendo sempre il massimo a se stessi, senza mai dormire sugli allori (o sul contrattone), mettendosi in gioco, anno dopo anno, con l’entusiasmo dei ragazzini, e non è vuota retorica.

Con 21 anni di militanza NBA alle spalle, Kevin Garnett è stato il primo ad arrivare tra i professionisti. Era il giugno del 1995: le idee di Francis Fukuyama sulla “fine della storia” non erano ancora diventate una barzelletta, al cinema c’erano Apollo 13 e Toy Story, gli Houston Rockets erano campioni NBA, la moneta corrente in Italia era la Lira, Microsoft aveva appena lanciato un rivoluzionario sistema operativo chiamato Windows ’95, e Karl-Anthony Towns era ancora nel grembo di mamma Jacqueline.

Il ragazzo di Mauldin, South Carolina, era un 2,11 secco e lunghissimo, che palleggiava come una guardia e vantava una mobilità laterale ineguagliabile (oltre al considerevole stacco da terra), tale da farne una letale macchina da aiuto-e-recupero, ma non era solo un fenomeno atletico: KG è sempre stato un playmaker nel corpo di un lungo. Sei stagioni da (almeno) 5 assist di media non si smazzano per caso, e nemmeno 26.071 punti o 14.662 rimbalzi (nono ogni epoca, ma primo per quelli difensivi), anche perché KG non ha mai giocato solo per gonfiare le proprie cifre.

https://www.youtube.com/watch?v=_EVW2Xh-mWs

La carriera di Garnett è stata zavorrata dall’aver militato in formazioni non indimenticabili e da una certa spigolosità caratteriale –eufemismo!– ma anche così, alcuni suoi passaggi a vuoto contribuiscono a dare l’impressione di un cestista un po’ meno dominante di Duncan e Bryant (meno dominante, lo sottolineiamo, non vuol certo dire perdente): pensiamo, ad esempio, alla clamorosa serie di sette eliminazioni consecutive al primo turno (l’unica veramente sanguinosa però, è quella del 2002, con un cappotto subito dai Dallas Mavericks).

Complici le circostanze ambientali sfavorevoli, The Big Ticket è l’unico dei nostri magnifici tre ad aver cambiato maglia, chiedendo e ottenendo uno scambio nell’estate del 2007, dopo il naufragio dell’esperimento con Latrell Sprewell e Sam “I am” Cassell. Danny Ainge sfruttò il canale privilegiato con Kevin McHale e portò il Bigliettone a Boston, costruendogli attorno una squadra capace di vincere il suo unico, meritato titolo NBA, impreziosito dal ruolo di “culture changer” riconosciutogli da tutto l’ambiente biancoverde, Doc Rivers e Pierce in testa.

Tim Duncan è il beniamino degli addetti ai lavori sin dai tempi di Wake Forest: tecnicamente indiscutibile (con un tocco retrò che fa impazzire i puristi) e talmente perfetto nell’interpretare il Gioco da far dire al venerabile Tex Winter che preparare il piano-gara contro di lui era facile, “perché tanto prende sempre la decisione migliore”. Rookie of the Year nel 1998, un anno più tardi l’uomo delle Isole Vergini era MVP delle NBA Finals, cui ne sarebbero seguite altre 5 in 15 anni, oltre a due MVP (2002-2003), tre MVP delle Finali, 15.091 rimbalzi, 3.020 stoppate, 26.496 punti segnati e tredici stagioni in doppia-doppia di media.

https://www.youtube.com/watch?v=TYzzcG-ZTaY

Si parla spesso dell’impeccabile organizzazione di San Antonio o della bravura di Gregg Popovich e di R.C. Buford, ma è Tim Duncan la pietra angolare di questo meccanismo perfetto: il caraibico ha imposto certi standard d’eccellenza in campo e di comportamento al di fuori, rendendo molto più semplice la vita al suo allenatore e al GM, che a loro volta l’hanno ripagato prolungandone la carriera ad alto livello con la scelta di Kawhi Leonard, e con la suprema intuizione del basket a quattro esterni, strumentale per la conquista del suo quinto titolo, nel 2014, a trentasette anni.

Kobe Bryant è stato per venti stagioni il faro dei Los Angeles Lakers. Tecnicamente perfetto in ogni aspetto di gioco, il figlio di Jelly Bean è stato spesso abrasivo (però quando Jordan terrorizzava Kwame Brown o alzava di peso Scottie Pippen, nessuno aveva niente da ridire. Due pesi e due misure, gente!) ma sempre pronto a metterci l’anima, giocando ogni possesso come se fosse decisivo.

https://www.youtube.com/watch?v=lhrx9ud7Xj0

Kobe era lo spauracchio di ogni difesa, l’attaccante che faceva scouting sui difensori per esporne i difetti, quello che più e meglio di più di tutti ha assorbito la lezione degli anni novanta e di Michael Jordan. Terzo ogni epoca per punti segnati, 18 volte All Star e cinque volte anellato, il Black Mamba è rimasto in NBA così a lungo da sopravvivere ai propri avversari e persino al proprio stile di gioco –obsoleto, nell’età della sabermetrica e degli Splash Brothers-, tanto da trasformarsi nell’ultima, ostinata vestigia di un basket che non esiste più.

Al netto del diverso modo di esprimere il loro fuoco interiore, siamo al cospetto di tre perfezionisti maniacali, giocatori che hanno sempre preteso il massimo da sé, e in subordine, dai compagni, tanto da fare dell’eccellenza il proprio marchio. Solo chi confonde la forma con il contenuto può pensare che Garnett e Bryant fossero due tiranni inavvicinabili, o che Duncan fosse un timido bonaccione tutto buffe smorfie e pacche sulle spalle.

Kevin Garnett ha fatto piangere Big Baby in partita, Kobe prendeva a male parole Dwight Howard, ma non crediate che le epurazioni non avvenissero anche all’ombra dell’Alamo. Solo che alla corte di Peter Holt si adottava uno stile più discreto rispetto ad El Segundo, dove i “segreti” di spogliatoio si traducono puntualmente in titoli di giornale, come hanno scoperto Nick Young e il malaccorto D’Angelo Russell.

Nessun uomo è un’isola, ma il successo è una forma strisciante di solitudine, perché finchè tutto va bene, non puoi accorgerti d’avere il vuoto attorno. Kobe, Kevin e Tim conoscono gli oneri e gli onori della leadership; si sono visti recapitare i plausi quando il vento soffiava in poppa, e le critiche quando la rotta si faceva incerta. Phil Jackson disse che Bryant era diviso tra il bisogno d’isolarsi nel suo mondo, e la voglia di appartenere al gruppo, ed è probabilmente una sensazione nota anche ai due numeri 21, il cui stile di gioco inclusivo non li ha messi al riparo dagli strali della critica da due soldi, ben inquadrata nella propria pochezza da Pop: “quando perdiamo siamo vecchi, quando vinciamo siamo esperti“.

Difficile stabilire fin d’ora se Duncan, Garnett e Bryant avranno degni eredi; tra i giocatori poco più giovani (quelli della famosa Banana Boat: LeBron, Carmelo, Chris Paul e Dwyane Wade), si è istaurato un rapporto di complicità che fa storcere il naso ai cultori della old-school.

Una volta tanto, è vero, un passato capitava di essere amici eppure rivali irriducibili, come Wilt Chamberlain o Bill Russell, per i quali l’ideale era giocare uno contro (e non con) l’altro. Tuttavia, LeBron ha ormai definitivamente legittimato la propria candidatura, Curry ci sta provando, e non si può escludere che Kawhi Leonard riesca ad entrare nella discussione, se continuerà a vincere e convincere, assorbendo basket come una spugna.

Garnett e Duncan sono emersi sulla distanza in un periodo che traboccava talento nel loro ruolo (c’erano Rasheed Wallace, Chris Webber, Jermaine O’Neal, Dirk Nowitzki) aggiudicandosi un duello dopo l’altro. Lo stesso vale per Kobe Bryant, che faceva a sportellate ogni sera con Allen Iverson, Vince Carter e Tracy McGrady, giocatori strepitosi, a lungo considerati suoi legittimi rivali, che però non hanno avuto altrettanto successo e longevità ad altissimo livello.

Tra i giovani, ci sono atleti dotati del potenziale per fare la differenza; complice il meccanismo dell’One-And-Done che connota l’NCAA odierna, le loro carriere collegiali hanno detto pochissimo, ma ci troviamo dinnanzi ad una classe ricca e promettente: i Timberwolves hanno Karl-Anthony Towns e Andrew Wiggins, i 76ers hanno Ben Simmons, Dario Saric e Joel Embiid, i Lakers vogliono costruire attorno a Brandon Ingram e D’Angelo Russell, mentre a New York evoluisce Kristap Porzingis, i Suns puntano forte su Devin Booker, e a Indianapolis sono convinti d’avere per le mani una gemma chiamata Myles Turner.

Per raggiungere Duncan, Garnett e Bryant però, non basta qualche bella stagione e una manciata di partecipazioni all’All Star Game: serve continuità ai massimi livelli, e la capacità di essere uomini-franchigia, non tanto e non solo in virtù del contratto, quanto per la capacità di reggere la responsabilità, di guidare gli allenamenti con l’esempio e di tenere unito il gruppo fino al conseguimento dei risultati.

Sono qualità rarissime (lo sono sempre state), e solo il tempo ci dirà chi, all’interno di questa nuova nidiata di giovani promesse, saprà raccoglierne il testimone.

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