Le Finali di Conference sono appena iniziate, uno spettacolo che si preannuncia da salivazione azzerata, sicuramente ad Ovest ma probabilmente con qualche possibile sorpresa anche ad Est.
Comunque vada – ed è iniziata già in maniera scoppiettante con un upset in Gara 1 ad Oakland – il merito di questa incertezza, e del conseguente spettacolo che la accompagnerà, va anche, se non soprattutto, a 2 protagonisti a lungo attesi negli anni e finalmente arrivati pienamente alla ribalta: Kyle Lowry e Russell Westbrook.
Uno più piccolo e tarchiato, un vero torello, l’altro più alto e molto più atletico – probabilmente il miglior atleta di tutta la Lega – hanno però una caratteristica che li accomuna e che li rende oltremodo interessati e simpatici: la testardaggine.
Il primo, entrato in NBA in sordina e rimasto sotto la doppia cifra di media per le prime 4 stagioni in carriera, è finalmente sbocciato a Houston con i Rockets operai di Rick Adelman per poi venir silurato alla prima occasione dal nuovo coach McHale per, mettiamola così, incompatibilità caratteriale.
Probabilmente assente il giorno in cui il dio del basket distribuiva il talento, Lowry ha sempre sopperito ai suoi oggettivi limiti fisici e tecnici con una tenacia e una grinta non comuni, oltre che con la testa quadra che l’ha sempre contraddistinto, sia quando si trattava di replicare al proprio coach, sia quando si trattava di entrare nelle difese avversarie, ovviamente anche in quelle più chiuse ed arcigne contro le quali si è sempre schiantato.
Ma quest’anno qualcosa è cambiato, sia in lui che attorno a lui: il tiro da fuori, slump permettendo, è entrato tutto l’anno, il suo coach attuale lo ama e gli ha affidato le chiavi della squadra, i suoi compagni lo adorano e lo seguirebbero a piedi sulla luna, se solo lui glielo chiedesse.
Per una franchigia da anni bistrattata come i Raptors, Lowry è come Curry, anzi è meglio di Curry, meno raffinato e più umile, in stile canadese.
Il talento di Russell Westbrook, invece, fin dal suo ingresso nella Lega, non è mai stato in discussione: la sua capacità però di giocare sotto controllo e di mettere in ritmo i compagni invece si, sempre, fino ad oggi.
Dopo un anno passato senza il gemello diverso Durant a tirare la carretta a forza di triple doppie, in questa stagione il numero zero ha trovato il supporto di un roster come si deve e di un coach che evidentemente ha saputo prenderlo per il verso giusto: oggi, dopo aver smantellato gli Spurs improvvisamente apparsi così vecchi e stanchi, e dopo aver sbancato in Gara 1 il campo dei Warriors, anche loro stranamente apparsi lenti nel secondo tempo a forza di corrergli dietro per il campo, nessuno sembra avere più dubbi sul suo valore.
Ma non è sempre stato così: c’è voluta tutta la sua cocciutaggine nel non voler cambiare, nel rimanere sempre fedele a se stesso, al suo stile, sempre in attack-mode, sempre al 101 per cento, sempre a rischio figuraccia. Se Durant ha la classe e lo stile felpato di un ghepardo, Westbrook è un rinoceronte che corre, corre, corre sempre a testa bassa.
Ora sono i Warriors a doverlo inseguire, e non sarà una passeggiata di salute.
Max Giordan
segue l’NBA dal 1989, naviga in Internet dal 1996.
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