Per noi italiani appassionati di NBA, parlare di Kobe Bryant vuol dire parlare di noi.
Vuol dire parlare di quel bambino che a 6 anni si innamorò della pallacanestro, e in quegli anni era in Italia, al seguito del babbo Joe “Jellybean” Bryant che faceva impazzire le difese di tutta la penisola col suo gioco fantasioso e fuori dagli schemi.
Per tutti noi, Kobe è l’NBA: per i più giovani, c’è sempre stato, per i meno giovani è come se lo fosse, perchè andare indietro nel tempo per ricordare un draft di 20 anni fa quando i Lakers sacrificarono il loro centro di belle speranze, Vlade Divac, per prendere un mingherlino che proveniva direttamente dalla high school, beh è uno sforzo mnemonico improbo.
Più che un ricordo, è un sogno, una notizia appresa non certo in diretta guardando lo streaming della notte del draft ma come minimo 15 giorni dopo leggendo American SuperBasket…
Però da quando ha cominciato ad andare in campo, ce lo ricordiamo più che bene: un ragazzino terribile, sfrontato, un atleta eccezionale, campione NBA a soli 21 anni con 21 punti di media nei playoffs, tre anelli a soli 23 anni, certo giocando di fianco a Shaq, ma brillando sempre di luce propria, dando l’impressione di dominare non grazie ma nonostante l’ingombrante presenza del Big Diesel.
Con un inizio di carriera così sfolgorante, il suo traguardo più ambito sembra a portata di mano, una formalità: gli anelli di Jordan, l’Alieno.
Ma Kobe non è mai stato un Alieno: è sempre stato molto umano, anche troppo.
La sua non è stata una carriera perfetta, senza errori né sconfitte nei momenti decisivi: il suo carattere apparentemente chiuso, a volte abrasivo, unito alla sua ossessione per il gioco, per la vittoria, per il lavoro, ne hanno fatto un compagno di squadra impegnativo, competitivo, ingombrante.
La sua coesistenza con Shaq terminò 2 anni dopo il terzo anello, dopo una inaspettata ma meritata sconfitta alle Finals contro una squadra di gregarioni di qualità come i Pistons di Billups e dei 2 Wallace, team che trovò nella difesa e nel gioco senza palla le armi per sfibrare la resistenza di una edizione dei Lakers con poca panchina e poca unità d’intenti.
Dopo di allora passeranno 4 anni prima di ritrovarlo in finale, ad affrontare una nuova sconfitta, questa volta contro i Big 3 di Boston. Dopodichè altri 2 anelli, questa volta senza Shaq ma col suo grande amico Pau Gasol ed il povero Lamar Odom.
Come racconta lui stesso nella sua lettera di addio, la pallacanestro gli ha dato tanto, ma lui le ha dato tutto: e se alla fine non ce l’ha fatta a raggiungere la grandezza, la perfezione di Michael Jordan, il modello a cui sempre si è ispirato in tutta la sua carriera come già scrivevamo nel 2002, in fondo questa non è una sconfitta, da nessun punto di vista.
MJ era l’Alieno, Kobe è stato umano, anche troppo: umano nel carattere, nell’umanità, negli scazzi, negli errori (come il Denver-gate di cui non parla ormai più nessuno), nella presunzione e nella testardaggine che sono state in fondo le ragioni del suo successo ed i motivi delle sue sconfitte.
Uno che ha amato alla follia il gioco, perchè lo faceva sentire vivo.
Uno dei più grandi di sempre, ma che parlava l’italiano: uno come noi.
Max Giordan
segue l’NBA dal 1989, naviga in Internet dal 1996.
Play.it USA nasce dalla voglia di unire le 2 passioni e riunire in un’unico luogo “virtuale” i tanti appassionati di Sport Americani in Italia.
Email: giordan@playitusa.com
81 volte grazie. A lui per le emozioni che ci ha regalato sul campo.
A voi per il risveglio della forza di quelle emozioni in questo editoriale.
Cazz’è il denver-gate?
Credo si riferisca all’accusa di stupro. Il fatto sarebbe avvenuto a Eagle, Colorado a un paio d’ore da Denver.
Bell’articolo!
Ma non fate più il power ranking nba stile football???