Esiste una porzione piuttosto ampia di pubblico, addetti ai lavori e media, rimasta sorpresa dall’inedita incapacità dei Lakers d’attrarre free agent di peso e che, per questo, ha preso a recitare il de profundis della franchigia gialloviola.
Si va dai fans che si stracciano le vesti, agli analisti televisivi che spiegano per filo e per segno perché i free agent non vogliono più andare a Los Angeles (sponda Lakers); nessuno però, si pone la domanda da un milione di dollari, e cioè: quali edizioni dei Los Angeles Lakers del passato sono state costruite con la free agency?
La risposta taciterebbe tutto questo inquieto rumoreggiare, perché, storia della franchigia alla mano, c’è un solo, grande free agent reclutato dalla franchigia originaria di Minneapolis: trattasi di Shaquille Rashaun O’Neal, che nel 1996 venne convinto dal sole della California, dalle insistenze del suo agente Leonard Armato, dalla possibilità d’esplorare le sue passioni musicali e cinematografiche (con risultati rivedibili, ma è un altro discorso), e dal contrattone sventolatogli sotto al naso da Jerry West.
Tutto qui. Per carità, c’è chi farebbe carte false per uno Shaq, ma quell’unico colpo non rappresenta certo una consuetudine o una normale modalità d’azione.
Un conto, per dire, sono i New York Yankees della MLB: loro sì, dragano il mercato in modo sistematico.
La Los Angeles della NBA fa invece i conti con il Salary Cap, che, giova ripeterlo, non implica che se uno ha soldi da buttare, può firmare chi gli pare e pagare la Luxury Tax; significa che, raggiunto il tetto salariale, si possono aggiungere contratti solo con le eccezioni (Mid-Level, Mini-Mid-Level, e Bi-Annual Exception, come spiegato qui).
La forza attrattiva dei Lakers non è mai risieduta nella capacità di firmare giocatori a destra e a manca, quanto nella possibilità di offrire agli stessi una situazione che ha pochi eguali dal punto di vista ambientale (abitare a Malibu, con la possibilità di stiracchiarsi tutte le mattine dinnanzi al blu dell’oceano, batte decisamente i sobborghi di Cleveland o Detroit, per dire), economico (perché L.A. è la seconda area metropolitana del paese, e se uno vuole investire, ci sono posti peggiori), pubblicitario.
Il nuovo CBA ha irrigidito le regole, rendendo poco conveniente sforare il monte ingaggi (con i rinnovi) ma non ha toccato (com’è ovvio e inevitabile) nessuno dei fattori sopra indicati.
Saremo anche nell’era dei Social Network, per cui è possibile fare la star globale anche da Oklahoma City, ma i Lakers hanno una fan-base mondiale che, con tutto il dovuto rispetto, i Thunder si sognano, mentre Hollywood e l’oceano Pacifico sono ancora lì al loro posto: traete voi le somme.
Volgiamo per un istante lo sguardo al passato, al titolo del 1972.
Nacque nel ’68, quando Alex Hannum lasciò la panchina di Philadelphia, spingendo Wilt Chamberlain a cambiare aria forzando uno scambio; i Lakers, già forti di Elgin Baylor (che poi si sarebbe ritirato all’inizio della stagione da titolo), Jerry West e Gail Goodrich, erano la sua meta prediletta, sia per il parterre hollywoodiano, sia per poter finalmente rivaleggiare alla pari con i Boston Celtics.
Quel titolo passò per il draft (Goodrich, West e Baylor, sono tutte scelte di L.A.) e per una trade fortunata, un po’ come i cinque anelli degli anni ’80.
In quel caso, la prima pedina a essere collocata sullo scacchiere dal compianto Pete Newell fu Kareem Abdul-Jabbar, che aveva comunicato alla proprietà dei Milwaukee Bucks la sua irrevocabile intenzione di cambiare aria. Le possibili trade erano tre: Washington, New York (dove Kareem è nato) e Los Angeles (dove aveva giocato ai tempi di UCLA, quando era ancora Lew Alcindor).
Milwaukee optò per la proposta dei Lakers, e il resto è storia: Los Angeles draftò Magic Johnson, James Worthy, Michael Cooper, A.C. Green; scovò Kurt Rambis, reduce dal campionato greco, e mandò Norm Nixon a San Diego in cambio di Byron Scott. Mosse astute volute dal GM Jerry West, e autografate dal nuovo proprietario, Jerry Buss, che nel corso degli anni ha coltivato un’immagine glamour ma che, nei fatti, di follie da mecenate ne ha fatte poche.
Addirittura, durante gli anni del three peat d’inizio millennio, la parola d’ordine era diventata “risparmiare”, tanto che, di stagione in stagione, la rotazione s’assottigliava sempre più, per quanto la stampa favoleggiasse l’improbabile firma di Penny Hardaway prima e di Chris Webber poi; Hardaway, in particolare, disse che i Lakers non gli avevano offerto abbastanza soldi, e accettò la proposta dei Phoenix Suns.
Los Angeles ha ovviamente una forza attrattiva della quale altre franchigie non dispongono, ma, come detto, questo dipende da fattori ambientali, piuttosto che dalle tasche della proprietà, che, oltretutto, ha nei gialloviola la propria attività principale, e non può permettersi di sperperare come fanno o hanno fatto i Paul Allen, i Prokhorov, i Dolan.
Tutto questo è ben fotografato dagli ultimi tre grandi free agent approdati ai Lakers, desiderosi di vincere l’agognato anello anche a costo di lasciare sul piatto parecchi milioni; parliamo di Karl Malone, Gary Payton (nel 2003) e Ron Artest (nel 2009), firmati con le eccezioni salariali (Ron e il Postino con la Mid-Level, il Guanto con la Mini-Mid-Level).
Se queste sono le premesse, non si capisce perché il mancato reclutamento di LaMarcus Aldridge debba passare per una sconfitta clamorosa, alla luce di una stagione da 61 sconfitte e da un progetto cestistico in fase embrionale che non poteva più di tanto attrarre un trentenne con in testa il Larry O’Brien Trophy.
Semmai, ad avere dell’incredibile è che i Lakers siano arrivati al ballottaggio con gli Spurs (parola di LaMarcus), nonostante un divario manifesto in termini di competitività e di raziocinio gestionale.
Se, nonostante la faida tra Jim Buss e sua sorella Jeannie, la totale confusione tecnica degli ultimi anni e la palese incapacità di gestire la bomba-Howard, Carmelo Anthony e Aldridge prendono ancora in considerazione l’idea di vestire la maglia gialloviola, significa che il brand è più forte che mai.
Non potevano poi mancare quelli che, impervi a ogni logica, attribuiscono la colpa di tutto a Bryant, che, peraltro, si è limitato ad accettare il contrattone elargito da Buss durante i due anni più duri della ricostruzione, che fa il paio con gli accordi regalati dalla proprietà a Jordan Hill e Nick Young, il cui scopo precipuo è raggiungere il monte salariale minimo imposto dalle regole del CBA (se una squadra non ci arriva, versa la differenza alla Lega).
Fidandoci il giusto delle voci di corridoio, possiamo basarci sui fatti: è vero, Dwight Howard ha lasciato Los Angeles perché voleva essere la prima opzione della squadra e giocare in post basso, e infatti è andato a Houston, dove non gioca in post basso e fa la seconda opzione dietro a James Harden, che, per quanto meraviglioso, non vale il Kobe di tre anni fa.
Viste attraverso il prisma deformante della stampa “social”, le decisioni degli sportivi appartengono al regno dell’irrazionale, quanto non direttamente al capriccio estemporaneo; gente che si alza la mattina, e avverte l’irresistibile impulso a firmare con la squadra della propria città, poi cambia idea e vuole giocare con l’amico d’infanzia, ma due giorni dopo, s’innamora di un GM e non riesce a immaginarsi con un’altra uniforme.
C’è tutto un mondo e una grammatica su misura, fatta di giocatori ipersensibili, decisioni irrevocabili dimenticate nello spazio di un tweet, in un innuendo di sparate abrasive e “si dice”, con litigi e riappacificazioni presi di peso dal cortile di una scuola elementare.
Fatte le dovute eccezioni (come il summenzionato Dwight, o DeAndre Jordan), i “Pro” non sono schiavi di moti insensati quanto improvvisi; scelgono (magari bene o magari male) secondo una logica; c’è chi cerca stabilità economica, chi, complice il già pingue conto corrente, vuole solo vincere, o chi ha attività collaterali che consigliano una certa meta (ad esempio Baron Davis).
Se davvero Anthony, Howard e Aldridge trovassero così insopportabile l’idea di giocare con Kobe Bryant, non perderebbero tempo fissando dei meeting con i Los Angeles Lakers, vi pare?
I gialloviola non hanno certamente fatto la presentazione del secolo, ma sarebbe stato sorprendente il contrario; quali statistiche sabermetriche potevano proporre a LaMarcus, considerato che la squadra è stata rivoluzionata rispetto a quella (disastrosa) della scorsa stagione? Quale situazione tattica poteva suggerire Bryant a Aldridge, se non una alla Pau Gasol (che, detto per inciso, ci sembra un gran bell’attestato di stima)?
La realtà è molto semplice, e forse troppo prosaica per le cronache; dopo un quadriennio di decisioni cattive e sfortunate, L.A. riparte dal draft: l’anno scorso sono arrivati Julius Randle e Jordan Clarkson, quest’anno D’Angelo Russell, Larry Nance Jr e Anthony Brown.
Oltre a loro, sono atterrati a El Segundo Roy Hibbert, in cerca di riscatto dopo una stagione largamente insufficiente, Brandon Bass e Louis Williams, che si aggiungono ai Tarik Black, Dwight Buycks e Jabari Brown del caso.
Per la prima volta dall’addio di Ronnie Lester e Phil Jackson, i Lakers hanno finalmente una direzione tecnica, con un allenatore che sa insegnare, un trio di potenziali giovanissime stelle, e una serie di veterani (non bolliti) scelti per aiutarli a maturare e imparare i rudimenti della vita NBA. Non è una soluzione “sexy”, ma è quella che conduce al successo: scegliere, fare scambi, e lavorare.
La prossima sarà un’altra stagione perdente (salvo che tutto funzioni alla perfezione), ma sarà l’inizio di una nuova era, e, a giudizio di chi scrive, non esiste prospettiva più affascinante.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Sono d’accordo con l’autore: io credo che i lakers possano ripartire per una stagione di rinnovamento con un fenomeno in campo, giovani interessanti (curiosità per A.Brown, il meno noto dei rookie di quest’anno, ma dalle statistiche solide) e qualche veterano combattente. Non amo vedere giocatori del calibro di Young, ma è gusto personale. Ad ogni modo, speriamo che i Kobe guidi questa squadra ad una stagione avvincente, è quello che tutti i tifosi dell’NBA si augurano!