Il titolo NBA 2015 vinto dai Golden State Warriors è un avvenimento ricco di significati all’interno della Lega:
– assegna a Steve Kerr il ruolo di talismano delle squadre più vincenti di sempre,
– sdogana in un certo qual modo lo “small ball” come tattica vincente anche ai massimi livelli,
– ribadisce l’importanza nella costruzione di una franchigia vincente di un management competente, capace di muoversi bene al draft (Curry, Thompson, Barnes, Green, Ezeli) ma anche di portare a casa i pezzi mancanti operando con oculatezza sul mercato (Bogut, Iguodala, Livingston, Barbosa).
Ma soprattutto, il fatto che a vincere il titolo sia stata una squadra che solo 3 stagioni fa (!) chiudeva l’anno col 35% di vittorie, dovrebbe far riprendere colore a tutti quei tifosi di squadre senza speranza, senza palmares o con palmares alquanto impolverato: se ce l’hanno fatta i Warriors, credeteci, possono farcela veramente tutti. A determinate condizioni, ovvio.
Come ormai tutti sanno, il titolo mancava ad Oakland da 40 anni, ma non solo. I Warriors sono stati fuori dai Playoffs per 9 anni consecutivi (dal ’78 all’ 86) e poi ancora per 17 (diciassette) volte in 18 anni, di cui 12 (DODICI) consecutivi dal 1995 al 2006.
Sarebbero diventati un vero e proprio “gulag” NBA, se non fosse stato per l’eroico pubblico casalingo, sempre presenta al palazzo anche negli anni più bui, quelli di Joe Smith alla prima assoluta, di Adonal Foyle alla 8, Pietrus e Biedrins consecutivamente alla 11 (2003 e 2004), Diogu e O’Bryant (chi??) consecutivamente alla 9 (2005 e 2006). Un disastro.
E non è bastato nel corso degli anni avere anche qualche saltuario colpo di fortuna, tipo Arenas alla 30 o Ellis alla 40. Se non hai una proprietà seriamente intenzionata a vincere, e non solo a guadagnare, e una dirigenza capace di programmare, nel giro di poche stagioni anche i colpi di fortuna vanno sprecati.
Tutto questo fino a quando non è arrivata un’ultima chance per questa società disastrata: Stephen Curry da Davidson, né playmaker (usato in questo ruolo solo nell’anno da Senior) né guardia (troppo leggero per gli standard NBA) quanto piuttosto una combo guard capace di segnare in mille modi, uno di quelli che può diventare un buon realizzatore oppure essere in 3 anni fuori dalla Lega come un Fredette (sic) qualunque…
Un paio d’anni di studio, e di tribolazioni per colpa delle caviglie, dopodichè avviene un fatto decisivo: via la vecchia proprietà, la società è comprata da un gruppo di investitori capitanati da Joe Lacob, uno serio, che si è fatto da solo e che vuol far rendere il proprio investimento, non vivacchiare.
Appena arrivato, i Warriors spediscono il proprio miglior realizzatore, Monta Ellis, per un bianco lungagnone sempre infortunato, Andrew Bogut. Il pubblico di casa gradisce il giusto…
L’anno successivo, Lacob sostituisce il G.M.: il buon vecchio Larry Riley, un talento naturale nel valutare i giocatori del college ma poco attivo sul mercato, viene spostato al dipartimento di scouting mentre viene promosso in cabina di comando Bob Myers, classe 1975, ex giocatore a livello di college ad UCLA, ex agente, un carattere empatico ed estroverso, un “Player’s GM” se mi passate la definizione.
Nel 2012 la coppia Myers – Riley sforna il draft dei sogni: Barnes alla 7, Ezeli alla 30, Green alla 35. L’asse portante della squadra dell’anello è a roster, ora cominciano gli aggiustamenti.
Nel 2013, nonostante le loro ottime prestazioni nei playoffs (uscita più che onorevole al secondo turno contro gli Spurs) Myers non rifirma Jack e Landry, ritenuti giocatori senza grande upside, ed invece rompe il salvadanaio per un giocatore in un ruolo in cui è già coperto: arriva Andre Iguodala, ritenuto l’uomo di esperienza per insegnare ai ragazzi, con l’esempio, come si difende e come si sta in campo ai massimi livelli.
Infine, nel 2014, arrivano Speights, Barbosa e Livingston: la squadra è completa, serve solo un coach moderno, giovane ma vincente, capace di far rendere tutti al massimo.
Mark Jackson ormai è un separato in casa con la dirigenza, anche se amatissimo dai giocatori: Myers rischia e si butta su Steve Kerr, esordiente completo in panchina ma con 5 anelli alle dita.
Nel frattempo, grazie anche ai consigli di Jerry West, schiva anche la buccia di banana lanciata da Minnesota, con l’offerta di Kevin Love per Thompson + Lee, una proposta interessante anche a livello di cap ma che avrebbe stravolto il senso tecnico della squadra.
Il nuovo coach intanto passa tutta l’estate in aeroporto per raggiungere e parlare a quattr’occhi con i suoi nuovi giocatori: ha già in testa un modo per far rendere al meglio i giovani della squadra, ma prima deve comunicarlo ad Iguodala e Lee…
Il resto è storia: una storia fatta di bravura, programmazione, talento, un pizzico di fortuna ma soprattutto tanta, tanta fiducia a tutti i livelli: del proprietario nel GM, del GM nel coach, e dei giocatori nei confronti di tutta la “catena di comando”. Ruoli chiari per tutti, senza prevaricazioni, tutti remando nella stessa direzione.
Tutto è cominciato, è vero, dal pescare il jolly di Steph Curry: ma da lì in poi, quello che hanno fatto i Warriors dovrebbe essere preso ad esempio da quelle franchigie che magari hanno il talento ma non lo sanno gestire (i Kings? i Timberwolves?) o da quelle che devono ricostruire ma non stanno dimostrando di farlo nel modo giusto (i Knicks? i Lakers?).
La strada è quella: ruoli chiari, idee moderne, cercare il potenziale nel draft ed il fit dal mercato, remare tutti nella stessa direzione, umiltà, sacrificio. Poi ci sarà sempre chi preferirà scambiare le scelte per prendere veterani e li farà allenare da coach senza idee e indietro di 20 anni, e i risultati sarannno lì da vedere…
Max Giordan
segue l’NBA dal 1989, naviga in Internet dal 1996.
Play.it USA nasce dalla voglia di unire le 2 passioni e riunire in un’unico luogo “virtuale” i tanti appassionati di Sport Americani in Italia.
Email: giordan@playitusa.com
Ottimo articolo che condivido al 1005, lo avevo scritto in un post sui GSW tempo fà…. al momento dello scambio Monta per Bogut ero rimasto di pietra…ma io non me ne capisco una mazza.
Il management ha fatto la vera differenza, saper costruire dal nulla o quasi e’ stata la formula vincente.
Il bello della NBA ed uno dei motivi che mi ha fatto innamorare di questa lega e’ che anche una franchigia non blasonata puo’ aspirare alla vittoria.
Certo non e’ facile vincere e molte non ci sono riuscite, pero’ pensare che in questi anni ( parlo dagli anni 90 ) sono arrivate alla finale squadre come Portland,Suns,Sonics,Sixers,Indiana,New Jersey,Miami,Oklahoma,Orlando,Golden state deve dare speranza a tutti i tifosi….
Vallo a dire ad un tifoso della Sampdoria ( come me ) se spera di vincere uno scudetto…..o anche una coppa Italia che non vale piu’ nulla.
Ciao a tutti