Il venerdì è il giorno di Gara 3 delle World Series tra i Chicago Cubs e i Cleveland Indians, all’epoca fermi sul punteggio di 1-1 dopo le prime due gare in Ohio.

Chicago è una delle città in cui convivono tutti e quattro i principali sport professionistici americani (il baseball ha addirittura due squadre, l’altra sono i Chicago White Sox), ma in barba all’inizio delle stagioni NBA e NHL o alle imprese dei Chicago Bears, l’attenzione in questo momento è unicamente sullo storico Wrigley Field, che nei prossimi tre giorni sarà teatro delle tre gare casalinghe dei Cubs.

In città, sui giornali e in tv non si parla d’altro, downtown è piena di migliaia di maglie blu e di poster con lo slogan “Make Someday Today” che cercano di spingere all’impresa una squadra che per troppo tempo ha riservato ai suoi tifosi solo cocenti delusioni.

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Già, perché da queste parti la vittoria del campionato è attesa da parecchio tempo. I Cubs non vincono un titolo esattamente dal 1908. Fanno 108 anni, il che li rende la franchigia dello sport americano a digiuno di titoli da più tempo.

Molti ne attribuiscono la colpa alla più potente maledizione della storia del baseball. Quella lanciata da tale Billy Sianis, che nel 1945 mentre veniva cacciato assieme alla sua capra dagli inservienti dello stadio,  disse “I Cubs non vinceranno mai più”, rivelandosi un ottimo profeta (o un superbo iettatore).

Altri ricordano la pallina maledetta di Steve Bartman, protagonista di una delle storie più surreali dello sport americano.  Sul punteggio di 3-0 Cubs nell’ottavo inning Bartman, all’epoca grande tifoso della squadra, ostacolò il tentativo di Moises Alou di eliminare al volo il battitore avversario, causando così un fuoricampo che spianò la strada ai Florida Marlins verso la vittoria di partita e serie.

https://www.youtube.com/watch?v=-KGhR5FLsNI

Il povero Steve divenne oggetto di una vera e propria persecuzione che lo spinse a cambiare nome e città. Nemmeno il grottesco tentativo di far esplodere la pallina (!) e di bollirne i resti per condire un gigantesco piatto di spaghetti (!!!)  servirono a riportare i Cubs alla vittoria (già, chissà perchè…).

Dall’altra parte, se Atene piange di certo Sparta non ride. I Cleveland Indians infatti l’ultimo titolo lo hanno vinto nel 1994. Però solo al cinema… Già, perchè se togliamo i titoli della tribù in versione “Major League. La squadra più scassata della Lega” allora il loro digiuno si allunga ulteriormente e per un titolo vero bisogna risalire al 1948. Fanno 68 anni, anche qui ci sono parecchi tifosi che aspettano letteralmente da una vita di veder vincere la propria squadra.

Gli Indians speravano di ripetere quanto fatto dai Cavaliers nelle scorse NBA Finals e cancellare definitivamente a Cleveland la nomea di città sportivamente “sfigata” portando per le strade un’altra parata trionfale.

Prima di Gara 1 in Ohio si era vociferato di un possibile “first pitch” (il lancio inaugurale che nelle partite MLB viene fatto da una celebrità o da un personaggio di particolare rilevanza) proprio da parte di un Charlie Sheen in versione Richie Vaughn, ma la speranza di sentire la musica di “Wild Thingh” al Progressive Field è tramontata subito.

https://www.youtube.com/watch?v=odOsx2AY6gs

Infatti il buon Charlie non è un grande modello a cui associare pubblicamente l’immagine di una franchigia, a causa di ripetute denunce per percosse domestiche, e i dirigenti di Cleveland hanno declinato l’offerta dell’attore.

In ogni caso gli indiani sono riusciti a vincere Gara 1, per poi perdere quella successiva e il conseguente vantaggio del fattore campo. Questo dava a Chicago parecchie speranze di poter chiudere la serie in casa senza dover tornare a Cleveland.

Come potete quindi capire, in generale l’intera serie ma soprattutto il ritorno delle World Series al Wrigley Field ha caricato il weekend di parecchie aspettative e la tensione emotiva è alle stelle.

La partita è alle 19:00, quindi con il lavoro non avrei avuto problemi per recarmi alla partita, ma come detto l’impresa di recuperare un pass stampa era troppo anche per un imbucato professionista come me. D’altra parte comprare un biglietto sarebbe un’opzione proponibile solo se avessi un terzo rene da vendere al mercato nero, quindi direi che non se ne parla.

Ripiego quindi sull’opzione “sport bar”, anche se faccio un po’ fatica a trovarne uno. Non nel senso che non ce ne siano, Chicago è piena di locali del genere. Il problema è che dai primi tre vengo clamorosamente rimbalzato, perché sono pieni da scoppiare anche se la partita non è ancora iniziata.

Per fortuna, quando già stavo iniziando a preoccuparmi, trovo un buco al bancone di un locale vicino al mio hotel. Non ho idea di come si mangi (tanto più o meno negli sport bar si mangia uguale dappertutto, hamburger e ali di pollo come se piovesse) ma non importa, mi interessa solo guardare la partita insieme ai fan dei Cubs per condividere un po’ del loro entusiasmo.

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Se ti trovi in uno sport bar americano, la condivisione non è una cosa molto difficile da raggiungere. Questo perché a differenza di quanto accade da noi, dove chi è a mangiare da solo tende a voler restare tale e non gradisce essere infastidito, se qui ti siedi al bancone entro pochi minuti capita sicuramente di iniziare a conversare con qualcuno.

Spesso chi è da solo è venuto sì per guardare la partita ma ha anche voglia di chiacchierare, quindi attacca bottone con chi gli sta di fianco e in queste circostanze capita anche di fare conoscenze decisamente interessanti.

Una volta all’aeroporto di Minneapolis ho incontrato un tizio di Boston il cui padre, grande amico di Bill Russell, quando era piccolo lo portava al Garden per vedere le partite dei mitici Celtics degli anni ’60. Ha iniziato a raccontarmi storie di Russell, Auerbach e Havlicek e se non avessi avuto il volo in partenza sarei ancora lì a sentirlo parlare.

Anche stavolta non è stato diverso ed entro pochi inning ho iniziato a parlare prima con un ragazzo che aveva cercato in tutti i modi di trovare un biglietto per la gara ma senza fortuna, poi con un signore che si è professato fan dei Cubs da 60 anni e che finalmente era felice (e pure un po’ alticcio) di poter vedere la propria squadra alle World Series.

Con l’inizio della partita il posto è diventato una polveriera e già al primo inning ogni out veniva salutato con grida e boati di esultanza.

https://www.youtube.com/watch?v=d6Kep1V63uk

La partita ad onor del vero è stata decisamente bruttina, inchiodata sullo 0 a 0 fino a quando un singolo di Coco Crisp ha portato il primo punto agli Indians nel corso del settimo inning.

Poco dopo, esattamente nella pausa a metà del settimo inning, al Wrigley Field è arrivato il momento di cantare “Take me out to the ball game”, la canzone simbolo dei Cubs, che ogni volta viene annunciata e guidata da un personaggio diverso. Stasera è il turno di Bill Murray, da molti considerato il più grande tifoso esistente dei Chicago Cubs, per lo meno tra quelli famosi.

Murray considerato è un personaggio decisamente eccentrico anche rispetto alla media dello show-biz, dove i personaggi fuori dalle righe non  mancano di sicuro, e anche stasera non ha deluso le aspettative. 

https://www.youtube.com/watch?v=eItTJehqMIQ

Purtroppo né la carica del buon Bill né quella di Duffy Duck sono servite a Chicago per ribaltare le sorti della partita. Proprio alla fine del nono con due out e un corridore in posizione per il punto del pareggio, Javier Baez ha avuto la possibilità di allungare la partita ma con un brutto swing su una palla alta si è fatto eliminare da Cody Allen e il misero punticino segnato in precedenza è bastato agli Indians per volare sul 2-1 nella serie.

I miei “vicini di banco” la prendono piuttosto bene, mi dicono che domani avranno già la possibilità di rifarsi e che comunque alle delusioni ci sono discretamente abituati. Con un sorriso e una stretta di mano li ringrazio della compagnia e gli auguro un buon proseguimento di World Series (per come sono andate a finire, direi che hanno avuto di che gioire), uscendo per dirigermi verso il mio hotel e la mia stanza.

Domattina non lavoro ma ho un viaggio nell’Indiana che mi aspetta, in direzione dell’università di Notre Dame.

(Continua…)

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