Un altro traguardo. Un altro milestone nella carriera di uno dei più forti e rappresentativi giocatori che abbiano mai indossato dei pattini e imbracciato una stecca.
Jaromir Jagr è diventato il settimo ogni epoca a raggiungere quota 700 gol in NHL e lo ha fatto con il suo settimo team da quando, nel 1990, varcò i confini di una Cecoslovacchia che stava lentamente uscendo dal comunismo, per accasarsi nella “Città dell’acciaio”, meglio nota come Pittsburgh. Ma qui ci arriveremo dopo, perché prima dobbiamo fare un piccolo (mica tanto) passo indietro.
A dire la verità, Jaromir – nato a Kladno, il 15 febbraio del 1972 – si approcciò al ghiaccio, all’età di tre anni, grazie al pattinaggio di velocità, dimostrando sin da subito eccellenti qualità.
Ma in un paese in cui l’influenza sovietica è stata forte per lunghissimi anni, l’hockey non poteva passargli inosservato, e ben presto iniziò ad allenarsi con le giovanili della squadra locale, i Rytiry (Cavalieri), di cui, qualche anno più tardi, diventerà proprietario.
Grazie alle abilità maturate durante la sua infanzia, Jagr divenne immediatamente la punta di diamante del team, facendo brillare gli occhi di tutti gli addetti ai lavori, specialmente per la sua snaturata velocità nel seminare l’avversario, dovuta ad una muscolatura ben più sviluppata rispetto a quella dei suoi coetanei.
Per questo motivo, appena sedicenne, venne convocato in prima squadra, senza tornare più indietro. In due anni nella massima serie cecoslovacca, Jaromir fece registrare 38 gol e 40 assist in 90 partite, catturando le attenzioni degli scout NHL che non ci pensavano minimamente a farsi sfuggire il giovane talento, soprattutto ora che la famosa Cortina di Ferro era stata finalmente abbattuta e che l’accesso all’Est Europa non era più un tabù.
Scelto dai Penguins con la quinta chiamata assoluta, Jaromir divenne il primo giocatore cecoslovacco ad approdare sul suolo americano, portando con sé, oltre al suo immenso bagaglio tecnico, la responsabilità di aver aperto una nuova frontiera, diventando una sorta di pioniere per i futuri giocatori cechi, o slovacchi, che approderanno nel “nuovo mondo”, perché, effettivamente, di nuovo mondo si trattava.
Gli ci volle un po’ di tempo per abituarsi ai forsennati ritmi americani, ma il diciottenne Jagr riuscì a superare tale disagio facendo la cosa che sapeva fare meglio e per cui aveva attraversato l’oceano: giocare a hockey.
Certo, il tifo sfegatato, i palazzetti più simili a degli stadi e l’incredibile pressione mediatica farebbero tremare le gambe a chiunque, specialmente ad un ragazzo giovane, ma non a Jaromir che con la freddezza tipica di chi viene dalle sue parti, disputò una stagione da rookie da ricordare.
Vestendo il numero 68 – in onore della primavera di Praga in cui perse entrambi i nonni – si rese sin da subito importante nell’inseguimento dei Pens alla Stanley Cup.
Partendo dalla panchina – a causa della grande concorrenza nel ruolo di ala – Jaromir mise insieme cifre sufficienti a farlo entrare nell’All-Rookie Team, anche se il traguardo più importante lo raggiunse verso la metà di maggio.
Come folgorati dall’arrivo del messia, i Penguins raggiunsero l’atto finale per la prima volta nella loro storia e non si lasciarono di certo sfuggire l’occasione. Guidati da un inarrestabile Mario Lemieux, i giallo-neri sconfissero i Minnesota North Stars per 4 a 2, aggiudicandosi il tanto ambito trofeo.
Trionfo che si ripeté l’anno seguente, in cui Jaromir divenne il più giovane giocatore nella storia della lega nordamericana a realizzare un gol nelle Stanley Cup Finals. Così, dopo appena due anni, il ragazzo dell’Est poteva già vantare due anelli da portare alle dita.
Il suo talento fiorì del tutto nella stagione 1994-95 che, seppur ridotta dal lock out, lo vide siglare la bellezza di 70 punti, frutto di 32 gol e 38 assist, che gli permisero di aggiudicarsi l’Art Ross Trophy.
E pensare che la stagione l’aveva dovuta iniziare in quella che era ormai diventata la Repubblica Ceca, tornando a giocare per la squadra che lo aveva lanciato tra i professionisti, per poi fare una breve sosta anche nel nostro campionato, a Bolzano, per la precisione, dove giocò a malapena sei partite prima di terminare il suo tour con tale Schalker Haie 87, di Gelsenkirchen, in Germania, per cui fece una sola “sfilata” sul ghiaccio condita da 10 assist, per poi tornare a Pittsburgh.
Il campionato seguente, Jagr giocò tutte e 82 le partite, facendo registrare quella che rimarrà la sua stagione dei record. Difatti, mise a segno 149 punti che non gli permisero comunque di aggiudicarsi il secondo Art Ross che andò, pensate un po’, al suo compagno di squadra, quel Super Mario Lemieux con cui formava una delle coppie offensive più temibili dell’intera lega, se non la più temibile in assoluto.
Ma dopo la stagione 1996-97, Lemieux decise che si sarebbe preso una “pausa di riflessione”, lasciando, a tutti gli effetti, le chiavi della squadra a Jagr per cui si spalancarono diverse porte.
Approfittando dell’eredità lasciatagli dal collega, il giocatore ceco ottenne qualsiasi riconoscimento fosse possibile. A partire dai quattro Art Ross Trophy, passando per l’Hart Memorial Trophy, fino ad arrivare ai due Lester B. Pearson Award consecutivi.
Il cimelio più importante, però, lo conquistò con la nazionale alle Olimpiadi di Nagano del 1998, in cui vinse l’oro, battendo in finale nientepopodimeno che i russi, dopo aver sconfitto prima gli Stati Uniti e poi il Canada.
Tutto sembrava andare a meraviglia nella carriera di Jaromir, fino a quando Lemieux non decise di tornare a solcare i ghiacci. Jagr, una volta appresa la notizia, storse il naso, rilasciando anche qualche dichiarazione non propriamente felice che iniziò a far sgretolare il loro rapporto, costruito, nel corso degli anni, su una granitica stima reciproca. Inoltre, la situazione finanziaria della franchigia non era delle migliori, perciò la dirigenza si trovò costretta a prendere un’ardua decisione.
Colui che aveva dato tutto se stesso per la squadra. Colui che era diventato capitano dopo l’addio di Ron Francis nel 1998. Colui che è ancora l’unico, oltre a Lemieux, ad aver realizzato più di 1000 punti con i Pinguini della Pennsylvania. Colui che era diventato un uomo simbolo della città di Pittsburgh, l’11 luglio del 2001, fu ceduto ai Washington Capitals.
Trascorsero giorni tremendi dopo quella fatidica data. Si sentiva ferito nell’orgoglio e non bastò nemmeno firmare un contratto da 77 milioni di dollari in 7 anni per fargli tornare il sorriso. Il suo cuore e la sua anima erano rimasti tra le mura del mitico Igloo e di questo se ne accorsero tutti abbastanza presto.
Difatti, la sua prima stagione nella capitale statunitense non fu all’altezza delle aspettative. Le sue cifre si abbassarono notevolmente rispetto alle stagioni precedenti e la squadra non riuscì a raggiungere i playoff. Anche l’annata successiva fu avara di successi per Jaromir, nonostante i Capitals riuscirono ad accedere alla post-season.
Così, il 23 gennaio del 2004, venne ceduto ai New York Rangers, in cambio di Anson Carter.
Giocò a malapena 31 partite (in cui totalizzò 29 punti) con la nuova maglia, prima che il lock out imperversò nuovamente, questa volta per tutta la durata della stagione. Jagr ne approfittò per tornare in Europa. Prima nella sua amata Kladno, e poi in Russia nell’Avangard Omsk.
Galvanizzato dalla vittoria ai Mondiali del 2005, Jaromir, nel frattempo tornato a New York, fu protagonista di un incredibile campionato che lo vide mettere a segno 123 punti (54 gol e 69 assist) in 82 partite, garantendosi il terzo Lester B. Pearson Award. Pur giocando altre due ottime annate, nell’estate del 2008 non rinnovò il suo contratto con la franchigia newyorchese, decidendo di tornare in Russia, con l’intenzione di terminare la sua gloriosa carriera.
Ma nessuno credette alle sue parole, tantomeno egli stesso che, tre anni dopo, fa il suo lieto ritorno in America, ancora una volta in Pennsylvania, ma a Philadelphia. Con i Flyers rimane una sola stagione, neanche tanto esaltante, prima di firmare con i Dallas Stars. Ma sulla lega piomba un’altra volta lo spettro della serrata che lo costringe a ripresentarsi in patria, sempre tra le fila dell’HC Kladno.
Con la riapertura del campionato, riesce a debuttare con i texani il 19 gennaio del 2013 in una partita vinta 4-3 contro i Phoenix Coyotes, mettendo a referto due gol e due assist. Il 29 marzo 2013, nella gara giocata contro i Minnesota Wild, giunge a quota 1000 assist in NHL, diventando il dodicesimo giocatore della storia a raggiungere tale primato, il primo non canadese.
Il 2 aprile dello stesso anno, passa ai Boston Bruins, esordendo il giorno dopo, in cui segna il gol della vittoria contro quei New Jersey Devils a cui si aggregherà durante l’estate. Prima, però, fa in tempo a ritornare alle Stanley Cup Finals, affrontando quei Chicago Blackhawks che aveva già battuto ventuno anni prima, senza riuscire a bissare il successo di allora.
Oggi, arrivato alla veneranda età di 42 anni, Jaromir ha raggiunto l’ennesimo traguardo di una carriera che sembra davvero infinita. Una carriera che sarebbe dovuta terminare qualche anno fa, ma che ha deciso di proseguire per continuare a deliziarci con le sue favolose serpentine che, ancora adesso, lasciano di stucco sia gli avversari che noi appassionati, e per questo non finiremo mai di ringraziarlo.
Personal trainer e grande appassionato di sport americani. Talmente tanto che ho deciso di scrivere a riguardo.
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