“Jerry Kramer did not know how good he was when he first joined the Green Bay Packers. You’d be surprised how much confidence a little success will bring”.
Ciò è stato detto da nientepopodimeno che Vince Lombardi ed a questo punto gran parte di voi sgranando gli occhi si starà chiedendo: “Come si può dimenticare un giocatore del genere?”.
Se poi addentrandovi nel suo impressionante palmares individuale- che ci mette davanti a cinque First Team All-Pro, tre Pro Bowl, un posto nella formazione ideale degli anni ’60 e l’immaginaria maglia da titolare nella squadra del cinquantesimo anniversario della NFL- iniziate ad interrogarvi sempre di più sulla mia abilità di scegliere titoli adeguati.
Lasciatemi spiegare la mia scelta: Jerry è l’unico giocatore nel team del cinquantesimo anniversario NFL a non essere stato introdotto nella Pro Football Hall of Fame probabilmente a causa del suo ruolo, quello di guardia destra, perché “nemmeno mia madre sapeva quale fosse il mio ruolo in campo, sai com’è, guardie!”.
Sette di sera di un anonimo sabato di fine luglio, uno di quei giorni che potrebbe tranquillamente essere un martedì a causa della monotonia dell’estate, il caldo non è eccessivo ma sotto la maglia di Rodgers indossata per l’occasione mi sento ogni centimetro della mia pelle bollire: agitato, Mattia?
Le insicurezze nella mia testa si stanno prendendo a braccetto imitando le ballerine di “La Danse” di Matisse: cosa chiedergli, non annoiarlo, nonostante tutti gli esami fatti in inglese negli ultimi mesi sarò in grado di parlare in modo adeguato, quanto devo farla durare la chiamata, quan…
Mi arriva un messaggio dall’amabile figlia Alicia- che per fare indossare la giacca dorata della Hall of Fame al padre sta lavorando instancabilmente da mesi- e sono pronti, come lo sono io adesso: pronto a farvi amare in un migliaio di parole uno dei giocatori più forti di tutta la storia della National Football League.
LA CARRIERA
Dopo i primi ringraziamenti, in un inglese da dimenticare, gli chiedo quale sia stato il miglior momento della sua carriera.
“Ce ne sono parecchi… nella mia prima stagione a Green Bay nel 1958 abbiamo vinto una sola partita [la peggior annata della storia dei Packers] e l’anno seguente è arrivato coach Lombardi… and we went to work: ha cambiato completamente la cultura, l’atmosfera e ciò si è capito già dal training camp. Quell’anno infatti il record fu di 7-5 e per me fu una grande cosa.
La stagione seguente andammo a Philadelphia a giocarci il Championship Game che a quel punto rappresentava il momento più alto della mia carriera, ma la seguente sconfitta è stata sicuramente una delle più grandi delusioni della mia vita, anche perché nella stagione seguente i miei compagni vinsero il titolo NFL ed io essendomi rotto la gamba durante la stagione sono stato costretto a guardarmi la partita dalle tribune.”
La leggenda di Jerry Kramer inizia il 30 dicembre di quello stesso 1961: “Entrare nello Yankee Stadium ti dà i brividi, vedere le statue di Ruth e DiMaggio fu parecchio emozionante ed ero già in estasi per il semplice fatto di aver avuto la possibilità di essere lì, ma ciò che rese indimenticabile quel giorno fu il fatto che oltre a giocare nel mio ruolo di guardia dovetti pure fare il kicker e realizzai tre field goal ed un extra point… fu uno dei giorni più belli della mia vita!”
Risultato finale? Green Bay Packers 16, New York Giants 7: contributo “discreto”.
Nel ’63 e ’64 le 19 vittorie sulle 28 partite giocate non aggiunsero titoli alla già ben fornita bacheca di Green Bay, mentre il 1965 portò nel Wisconsin il nono, nonché ultimo, titolo NFL: dal 1966 infatti la finale fra le migliori squadre di NFL e AFL (American Football League) prende il nome di Super Bowl, ed il primo viene agevolmente vinto dai Packers con il punteggio di 35 a 10 contro i Kansas City Chiefs, mentre il secondo entra direttamente nella storia e nell’immaginario collettivo di ogni appassionato di football americano.
Sto parlando del mitico Ice Bowl, giocato con temperature che in media oscillavano dai -26° ai -44° con vento: in questa partita la leggenda di Jerry Kramer cresce, raggiungendo così quell’immortalità sportiva di cui troppo spesso si abusa.
“Il drive finale dell’Ice Bowl è probabilmente il momento in cui sono stato più fiero di fare parte di questo team. Avevamo la palla con ancora quattro minuti e mezzo sul cronometro, il vento aveva portato la temperatura a -57° e nelle 31 giocate precedenti avevamo totalizzato -9 yards, e guardando Bart [Starr] mi chiedevo come fosse possibile riuscire a segnare dopo tutto ciò, anche se guardando nei suoi occhi e in quelli dei miei compagni ero riuscito ad intendere che qualcosa era diverso: non saprei dirti cosa sia successo o da dove fosse arrivata quella forza, però tutti insieme alzammo il livello delle nostre giocate nel momento giusto e riuscimmo a muovere le catene arrivando vicini alla endzone.”
Il fatto che abbia dovuto chiedergli specificamente di descrivermi nei dettagli il “blocco della vittoria” la dice lunga sull’umiltà di un uomo che in mezz’ora di chiamata non ha detto una parola autoreferenziale ma ha sempre messo o il team o Lombardi davanti a tutto. “Jetro Pugh [defensive lineman dei Cowboys] era un ragazzo abbastanza alto [circa due metri] e guardando le registrazioni delle loro ultime tre partite abbiamo notato che alzava sempre velocemente il tronco allo snap ed a quel punto diventava impossibile da muovere… pensai quindi di poterlo attaccare in quel preciso momento in modo tale da fargli perdere l’equilibrio e neutralizzarlo. Proposi quindi il tutto a Lombardi che mi ringhiò uno dei suoi “What?!” ma rispiegandogli il tutto più e più volte con l’aiuto di Bart lo convinsi. Vedi, quando sei tu a proporre la giocata al coach solitamente non mancano 13 secondi alla fine di un Super Bowl e soprattutto non sei sulla goal line avversaria sotto di un solo possesso. Riuscii ad anticipare bene lo snap, piantai il mio piede sinistro, anche se di solito usavo il destro, nel ghiaccio che ormai aveva ricoperto il campo, Pugh sollevò subito la testa ed io ero in una posizione migliore della sua, la palla arrivò nelle mani di Bart e… il resto è storia.”
VINCE LOMBARDI E GREEN BAY
Sono già passati sette minuti e magicamente tutta la mia agitazione è svanita: la precisione e lo stile con cui Jerry parla di football non mi sorprendono, in quanto è stato autore di numerosi libri fra cui il best-seller Instant Replay, e quindi decido di sfruttare la sua meticolosa memoria chiedendogli qualche aneddoto su Lombardi.
“La prima volta che lo vedemmo fu la prima sera del training camp quando entrò nella stanza in cui eravamo tutti radunati. Ci guardò severo e ci disse “Non sono mai stato un perdente e non ho certamente intenzione di iniziare adesso. Se non siete disposti a dedicare ogni singola vostra goccia di sudore per la squadra e per la vittoria finale e soprattutto, se non siete pronti a lavorare duramente come mai nella vostra vita, well, get the hell out of here”. Restammo tutti per qualche secondo imbambolati e poi all’unisono pensammo che non poteva di sicuro essere così duro ed autoritario, ma a ancor prima che finissi il mio pensiero riprese “Avete solo tre cose importanti nella vita, il vostro Dio, la vostra famiglia ed i vostri Green Bay Packers e se non siete disposti a dedicare tutto a queste tre entità, beh forse questo non è il posto giusto per voi”. Nessuno di noi subito prese seriamente tutto ciò, non poteva essere possibile: ci sbagliavamo in pieno. C’erano ragazzi che svenivano in campo durante gli allenamenti, il mio compagno Dave Hanner per qualche giorno aveva iniziato a trascorrere la mattina in campo ad allenarsi ed i pomeriggi in ospedale per reidratarsi e recuperare per la mattina dopo. Lavoravamo più duro di chiunque altro e credo che nessuno nemmeno oggi possa avvicinarsi a tutto ciò. A novembre durante la regular season nei momenti difficili ci ricordavamo di luglio e pensavamo al fatto che qualcuno avrebbe pagato se non avessimo iniziato a produrre… in quei casi segnavamo quasi sempre!”
Tutto ciò per i Packers, per Green Bay: istintivamente gli chiedo cosa abbia di così speciale Green Bay da far rifiutare a tanti giocatori contratti ben più remunerativi pur di rimanere in Wisconsin.
“Una cosa affascinante dei Packers è che la squadra è veramente della città, in quanto chiunque può comprare azioni della società che altro non sono che pezzi di carta da appendere al muro che non ti danno assolutamente potere o quant’altro: qualche anno fa per ampliare e modernizzare lo stadio furono messe in vendita queste azioni che furono comprate circa da 250000 persone in tutta America, anche se alla fine stiamo parlando solo di pezzi di carta! Questa squadra non è solamente l’orgoglio della città, ogni persona nel Wisconsin sente di possederne una piccola parte, e questa gente è la stessa che la domenica riempie lo stadio portando sempre negli spalti conoscenza del football, classe e dignità… anche nelle partite contro i Bears, i Vikings o i Patriots: nonostante la rivalità in campo non perdono mai l’occasione di salutarli fuori dallo stadio e chiacchierare bevendo una birra e mangiando qualcosa!”
Si ferma un attimo, guarda in camera: vuole tornare velocemente su Lombardi.
“Il coach era un essere umano estremamente intelligente, insegnava chimica e fisica al liceo, leggeva latino e greco antico ed era un grandissimo appassionato della cultura ellenica, e ci aiutò anche individualmente ad essere fisicamente, emotivamente e mentalmente pronti per le partite. Ci ha insegnato valori come rispetto, orgoglio, fiducia in sé stessi e nei compagni, e questi principi sono validi da sempre e credo non invecchieranno assolutamente mai.”
A Lombardi non interessava colore di pelle o orientamento sessuale, chiunque avesse problemi con queste cose era cacciato immediatamente dai Packers, tutto ciò che gli bastava era che ogni singolo membro della squadra o dello staff facesse del suo meglio per arrivare alla vittoria finale.
“Lombardi era duro… ma se vuoi veramente qualcosa devi essere disposto a pagarne il prezzo, il successo e le soddisfazioni hanno un prezzo che se sei disposto a pagare può portarti ovunque nella vita.”
L’INCUBO CONCUSSION
Il recente studio pubblicato su Journal of the American Medical Association in cui sui 111 cervelli di giocatori NFL deceduti solo in uno non è stata riscontrata CTE, è sulla bocca di tutti.
Fra le altre cose Jerry lavora a stretto contatto con un gruppo di ricercatori che da anni studia nanotecnologie per migliorare la sicurezza dei caschi indossati dai giocatori, quindi una domanda sull’argomento appare inevitabile.
“E’ molto preoccupante e ciò lo si capisce dal numero di scienziati e ricercatori che negli ultimi anni si sono interessati al problema: mio nipote ha 4 anni e non impazzisco all’idea che un giorno possa giocare a football, vorrei si dedicasse al golf, al tennis o tiro con l’arco, anche se sarà una decisione che dovrà prendere da solo, spero solo che ci pensi veramente bene anche se sai com’è, voi giovani siete indistruttibili e spesso superumani… sono convinto che una cura o un modo per mitigare queste malattie verrà trovato.”
Ma tu, Jerry, di quanti traumi cranici sei stato vittima?
“Sei o sette fra cui una decisamente grave in uno dei miei primi anni in cui ricevetti una ginocchiata in fronte da un defensive lineman avversario, ciò mi provocò il distaccamento della retina: non ricordo assolutamente niente di quella partita o di quell’episodio, quando rientrai in campo Bart prima di ogni giocata doveva dirmi cosa fare e quale difensore bloccare. Quell’anno giocammo contro gli Eagles nel Championship Game e la mia presenza fu in dubbio fino all’ultimo in quanto avrei avuto bisogno di essere operato: volli giocare in quanto poteva essere il mio primo ed ultimo Championship Game e per nulla al mondo lo avrei perso! Alla fine qualche mese dopo mi operai e purtroppo non tutto andò per il verso giusto. Oggi vedo da un solo occhio, però nonostante ciò so giocare veramente bene a golf e soprattutto chiacchiero veramente bene… I can shoot the breeze extremely well, I’m a breeze guy.”
Negli ultimi anni le concussion hanno finalmente iniziato ad essere prese veramente sul serio e Jerry me lo ribadisce spiegandomi come venivano trattate ai suoi tempi. “Non erano molto considerate in quegli anni, i nostri dottori ci portavano in spogliatoio, ci mettevano due dita davanti agli occhi e ci dicevano di rispondere “Due!” alla domanda “Quante dita vedi?” ed una volta fatto ciò tornavamo in campo guidati da qualcun altro che ci diceva prima di ogni singola giocata cosa avremmo dovuto fare. Nessuno è mai uscito per un trauma cranico, ci giocavamo sopra.”
Ma esistono rimedi o motivi per essere fiduciosi in un miglioramento? “Bisogna sicuramente partire dalla tecnologia dei caschi, bisogna soprattutto aumentarne ulteriormente la coscienza generale ed infine capire il problema stesso, ovvero il limite dopo il quale il cervello non può subire ulteriormente danni, potrebbero esserci situazioni in cui al terzo trauma cranico non puoi più mettere piede in campo. Tutto ciò lo affronteremo in un modo o nell’altro anche se sono in ballo troppi soldi ed una fan base in continua espansione.”
QUATTRO CHIACCHIERE SULLA NFL DI OGGI
Dopo aver analizzato uno dei temi più controversi e delicati nell’intero panorama NFL, decido di dedicare gli ultimi minuti della nostra conversazione a qualcosa di molto più leggero ed ingenuamente gli chiedo chi è secondo lui la migliore guardia della lega e dopo averci pensato per qualche secondo sbotta in un giocoso “Well… Jerry Kramer!” e una volta finite le risate con un tono più serio lucidamente mi dice: “Guardia? Mia mamma nemmeno sapeva cosa fosse una guardia mentre giocavo, sono un fan di runningbacks, wide receivers e quarterbacks, basta che non sia la linea d’attacco, anche se, per rispondere alla tua domanda, credo che i ragazzi di Green Bay stiano facendo un ottimo lavoro permettendo a Mr. Rodgers di iniziare le sue danze dentro la tasca e lo hanno sempre protetto egregiamente.”
“Runningbacks? I miei preferiti sono i miei contemporanei Jim Brown e Gale Sayers ed al momento mi piace molto Jay Ajayi, ma forse sono di parte poiché viene da Boise State [Jerry ed Alicia vivono a Boise], ma purtroppo al giorno d’oggi i runningbacks non hanno molte opportunità per mettersi in mostra: ai miei tempi il 75% delle giocate erano corse, mentre l’utilizzo maniacale dei passaggi che vediamo adesso ha anche condizionato i runningbacks in quanto quelli che hanno più successo sono quelli in grado di ricevere come veri e propri wideout. La giocata che ha reso grandi i miei Packers era infatti una corsa, il “Packers’ sweep”, uno schema molto complesso ed articolato che subito a qualche mio compagno risultò incomprensibile ed ogni volta che qualcuno non eseguiva perfettamente il suo compito coach Lombardi urlava “Run it again!” fino a quando dopo anni ed anni di pratica era chi sbagliava a pronunciare il fatidico “Run it again!“. Hornung [il runningback titolare] era veramente bravo ad aspettare lo sviluppo dei blocchi ed essendo anche in grado di lanciare discretamente bene la palla i defensive backs dovevano esitare ed aspettare fino all’ultimo momento per decidere cosa fare, e personalmente mi piaceva molto quello schema perché invece di scornarmi con defensive lineman di 140 chili potevo andare a bloccare cornerbacks che pesavano meno di 90 chili… era una giocata fantastica con la quale riuscimmo a guadagnare 8.4 yards per portata durante i primi anni ai Packers.”
Trenta minuti volati. Tento di ringraziarlo il più calorosamente possibile, quando Alicia mi chiede quando è che andrò al Lambeau a vedere una partita dal vivo le spiego che nonostante un preoccupante amore nei confronti di Aaron Rodgers ed un’infatuazione per la città di Green Bay nata guardando “That 70’s Show”, io tifi i Baltimore Ravens: Jerry fissando seriamente l’obiettivo dopo un sospiro soavemente afferma “well… you know, everybody has problems!”
Se dopo questa intervista siete convinti che Jerry Kramer meriti assolutamente un busto a Canton sentitevi pure liberi di passare dalla pagina dedicata su Facebook o dal suo sito gestiti entrambi dalla fantastica figlia Alicia che da anni, da sola, sta lottando per rendere possibile il tutto: il supporto che un candidato riceve dalla gente comune è estremamente importante nel momento in cui si deve scegliere chi entrerà a far parte della Hall of Fame.
Dopo tutto la storia è fatta così, di eroi che nei loro campi non hanno ricevuto i riconoscimenti che avrebbero meritato anche se sicuramente Jerry Kramer non ha bisogno di una giacca d’oro per essere ricordato.
O almeno, da me.
Mattia, 27 anni.
Scrivo e parlo di football americano per diventare famoso sull’Internet e non dover più lavorare.
Se non mi seguite su Twitter (@matiofubol) ci rimango male. Ora mi trovate su https://matiofubol.substack.com/
Jerry è entrato nei finalisti senior per la Hall of Fame, potresti aver intervistato una leggenda che diventerà ancora più leggendaria! Sei stato grande a procurarti l’intervista!
Ciao Ziz, a dirla tutta di meriti ne ho avuti gran pochi, per non dire zero.
E per quanto possa suonare banale, non mi interessa molto aver intervistato uno che forse (toccata) entrerà nella HoF, in quanto ai miei occhi, per come si è comportato con me e per ciò che mi ha detto è già un Hall of Famer! Certo, magari posso impressionare qualche ingenua a caso all’università, ma ciò che mi porterò per sempre dentro è la persona che ho avuto l’onore di conoscere, non l’atleta!
Ciao Marco!