Mentre il collega Giorgio vola negli States al solo scopo di procurarvi notizie fresche, il sottoscritto resta qui per raccontarvi il meglio della settimana NBA dal punto di vista italiano. Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati sette giorni fa, con prestazioni over 50 (non nel senso che apprezzano le cougar) di Steph Curry e Blake Griffin, contagiati da questi punteggi pazzi di un campionato dove si tira da tre come se non ci fosse un domani. Colpa/merito di Silver e della sua pelata da scienziato pazzo? Colpa/merito degli sciamani delle analytics e dei profeti delle statistiche avanzate? Colpa/merito di Sam Hinkie e Russell Westbrook, che tornano buoni per ogni discussione? Approfondiremo più avanti. Allacciate le cinture e scaldatevi per il flame.
LUNEDÌ 29 OTTOBRE – HEADBAND KLAY
La stagione di Klay Thompson non era iniziata nel migliore dei modi, forse doveva ancora smaltire la sbornia cinese maturata nell’ormai consueto viaggio estivo. Uno shooting slump come non gli capitava da anni; non che i Warriors se ne facessero un problema, soprattutto con Steph Curry che segna 32.5 punti di media col 50% dalla distanza, incattivito da chi continua a snobbarlo per il premio di MVP, con la ciliegina dei 51 punti con 11 triple registrati proprio la settimana scorsa. Stuzzicato dalle prodezze del compagno di splash, Klay sceglie di sbloccarsi in grande stile.
A Chicago sono 52 punti in 29 minuti, mettendo palla a terra solo nove volte in tutta la partita e depositando in fondo alla retina 14 triple: record assoluto nella lega, che va a battere il primato che apparteneva, sì, avete indovinato, proprio a Steph. In mezzo, una ferita alla testa che lo costringe a indossare una fascia (non gli dona proprio tantissimo) e forse ne risveglia i poteri sopiti. Nota a margine: questo signore qui è il terzo/quarto miglior giocatore della vostra squadra. Non ho altro da aggiungere, vostro onore.
https://www.youtube.com/watch?v=VoqR1_UJjbk
E voi, cos’avete fatto oggi in 29 minuti?
MARTEDÌ 30 OTTOBRE – UNCLE DREW
Le similitudini tra la storia di Klay e quella di Kyrie Irving hanno dell’inquietante. Anche per Irving la stagione non era partita col botto, complice l’avvio al singhiozzo dei Celtics che vincono ma non convincono, ragionevolmente impegnati nel far quadrare quintetti e rotazioni mentre Hayward recupera pian piano la forma (a giudicare da questo alley oop, il lavoro procede bene). Col sistema egualitario di coach Stevens è difficile mettere insieme cifre che fanno sognare i fanta-allenatori, lo sappiamo, specialmente con Jayson Tatum salito al vertice della piramide alimentare e titolare del pallone in crunch time. Ma nelle prime uscite, Irving denotava una scarsa esplosività e scelte offensive più discutibili della recitazione in Uncle Drew, il tutto condito dal nuovo look che ricordava per metà un attivista nero degli anni ’70 e per metà un senzatetto.
Contro Detroit, avversaria che invece sta giocando meglio del previsto (tre giorni prima aveva limitato Irving a un misero bottino di 3 punti), assistiamo alla trasformazione con modalità inversa rispetto a Klay: tagliati i capelli, via la fascetta, ripulita la barba ed ecco 31 punti col 60% abbondante dal campo, bissati il giorno dopo dai 28 che condannano i Bucks alla prima sconfitta stagionale.
https://www.youtube.com/watch?v=jGo0KzYfBik
Secondo alcuni è il miglior ball-handler della lega: dalla prima azione si intuisce il perché
MERCOLEDÌ 31 OTTOBRE – FATHER TIME
Neanche tre settimane d’azione e forse abbiamo già la feel good story dell’anno. Sarà difficile battere il carico emotivo di quanto accaduto nella notte di Halloween a Minneapolis, quando il tempo sembra tornare indietro al 2011: per una sera Derrick Rose ha di nuovo le ginocchia integre, è di nuovo l’alfiere preferito di Tom Thibodeau, gioca di nuovo con la passione dei campioni, è di nuovo l’MVP. Sul primo possesso riceve palla sul perimetro, in punta, lo lasciano solo, tira, è canestro da tre punti. 48 minuti, 31 tentativi e una stoppata decisiva più tardi, la lancetta si fermerà a 50. È il nuovo massimo in carriera; una carriera che sembrava finita soltanto dodici mesi prima, dopo la comparsata a Cleveland.
La vittoria contro i Jazz è d’obbligo per coronare il miracolo, le lacrime che scendono copiose anche. L’abbraccio dei compagni è forse l’ingrediente più bello, perché il meno scontato: lo spogliatoio dei T’Wolves è tenuto sotto scacco da Jimmy Butler che una partita gioca, un’altra resta a casa e un’altra ancora festeggia la sconfitta coi tifosi avversari. Ma quando si riesce a sgattaiolare via dagli artigli di Padre Tempo, anche solo per una notte, ci sentiamo tutti parte della stessa squadra.
https://www.youtube.com/watch?v=6BgJKC1vAV4
Non lasciare che il tempo decida i tuoi obiettivi al posto tuo. Se è vero che si insegna con l’esempio, questa di D-Rose è una lectio magistralis
GIOVEDÌ 1 NOVEMBRE – C’È UN NUOVO SCERIFFO A SACRAMENTO
“I Sacramento Kings giocano bene a pallacanestro”, titola un video che occhieggia sornione sulla mia timeline di YouTube. Io temporeggio prima di aprirlo, un po’ per non darla vinta ai mefitici algoritmi che dominano la nostra esistenza digitale, un po’ perché non voglio minare una delle poche certezze rimaste nella vita. Poi cedo alla visione, e mi ritrovo spaesato. Nella capitale della California Ranadive e Divac – che agli occhi dei colleghi è un po’ come dire Scemo & più Scemo – hanno sguinzagliato i cani e coach Dave Joerger è libero di iniettare un po’ di sano entusiasmo nella truppa. Panchinati i veterani (ciao Zach Randolph, salutaci con un contested jumper da 5 metri), ci si rende conto che nella NBA del 2018 tutti corrono e tirano come dei pazzi, quindi perché non farlo anche noi, che di giovani furiosi siamo pieni in ogni spot?
Detto, fatto. Mentre si attende il rientro dall’infortunio di Bogdan Bogdanovic, ci si rassegna a catalogare Justin Jackson e Harry Giles tra i progetti incompiuti (e Buddy Hield tra i non-futuri Steph Curry), si apprezza l’esordio di Marvin Bagley III e la conferma di Willie Cauley-Stein, di cui già s’intravedevano lampi lo scorso anno. Soprattutto, ci si accorge che De’Aaron Fox può essere un interprete di grosso calibro se si intende la pallacanestro nella sua dimensione più atletica, da razzi sotto i piedi. Fox è un playmaker accelerazionista: nella notte, contro gli Hawks, la sua prima tripla doppia in carriera da 31 + 15 + 10. I Kings sono a 6 vinte e 3 perse. Non saprei dire se il mondo ruoti ancora nella medesima direzione.
https://www.youtube.com/watch?v=ECRtAqmUe6g
A Kentucky li fanno con lo stampo, ma non ce ne lamentiamo
VENERDÌ 2 NOVEMBRE – CORRI E TIRA
Ci risiamo. I bagordi di inizio stagione in NBA hanno acceso l’ennesima querelle des Anciens et des Modernes nella quale, come quando ci si ostina a paragonare giocatori di epoche diverse, non si cava un ragno dal buco. Il capo d’accusa sono i ritmi ipercinetici a cui le squadre stanno viaggiando in questo primo mese: 112.3 punti di media, il dato più alto dal 1970, con 19 squadre che stanno totalizzando almeno 110 punti di media contro le sei dell’anno scorso, e si consideri che i Suns dei seven seconds or less oggi sarebbero ultimi per pace. Gli imputati variano a seconda dei punti di vista. L’abuso del tiro da tre, secondo alcuni, alimentato dagli scienziati delle statistiche avanzate che hanno finito per polarizzare l’attacco tra perimetro e pitturato insistendo sulla conclusione dalla distanza come più conveniente. La lassità delle difese, secondo altri, viziata da una scarsa attitudine all’impegno e da un regolamento che proteggerebbe gli attaccanti in maniera eccessiva. In ultima analisi, c’è chi accusa una deriva dei fondamentali: non si sa più giocare in post come nei bei tempi andati.
Perché, invece a tirare sono buoni tutti, ci chiediamo noi? Su 7for7 ci piace mostrare entrambi i lati delle medaglie, dunque citiamo anche le altre motivazioni di un cambiamento innegabile. L’evoluzione atletica dei giocatori, in primo luogo, che ha condotto il centro tradizionale sulla via dell’estinzione invitando gli allenatori a modellare quintetti fluidi e più adatti a correre. Ma anche l’evoluzione tecnica, perché i suggerimenti delle analytics sarebbero rimasti inascoltati senza mani capaci di indirizzare a canestro un tiro da tre punti. Se oggi il tiro da tre è il tiro migliore che si possa prendere, è anche perché persino i centri convertono i tentativi con buone percentuali (si vedano i Celtics che servivano regolarmente Horford e Baynes sul perimetro mentre segnavano il record di franchigia con 24 triple opposti ai Bucks). E inoltre, perché i numerosi specialisti possano sopravvivere sul parquet, è necessario che siano supportati da giocatori a tutto tondo, con doti di playmaking che in passato nessuno richiedeva a uno swingman o a un lungo. I ritmi alti sono una naturale conseguenza, un adattamento: le difese imbarcano acqua principalmente perché costrette a coprire fette amplissime di parquet, non perché impossibilitate nei contatti su chi porta palla, ed ecco che la soluzione per vincere diventa “fare un punto in più dell’avversario”.
Al netto di queste considerazioni, c’è un discorso sul regolamento che sta certamente in piedi, appoggiato da Adam Silver in comunione con un comitato che rappresenta proprietari, manager, allenatori, giocatori e arbitri: le modifiche stanno sortendo l’effetto sperato. Ci si riferisce ai 14 secondi che ora sono a disposizione dopo un rimbalzo offensivo, e alle nuove interpretazioni volte a limitare l’uso delle mani in difesa e a garantire ai tiratori spazio per l’atterraggio. Una nota interessante sulla questione, proposta in telecronaca da Grant Hill proprio mentre assisteva alla gragnuola di triple dei Celtics contro i Bucks: “Non lo intendo come una cosa necessariamente negativa, ma a volte sembra di guardare la ABA. Già oggi certe squadre tirano più spesso da tra punti che da due, e va bene perché è sotto controllo, ma mi chiedo: verso quale direzione ci porterà questa tendenza? Dove saremo tra cinque anni?”
Un’idea interessante per accontentare i puristi del gioco sotto canestro.
SABATO 3 NOVEMBRE – CU*O E CAMICIA
Tiriamoci su di morale dopo le polemiche parlando di una franchigia che ha iniziato la propria stagione agonistica 2018/2019 con un tema centrale: il cu*o. Partiamo dall’acquisto dell’estate, Dwight Howard, che ha deciso di proseguire il suo tour per le squadre più disastrate della Eastern Conference passando per il District of Columbia. Lo coesione dello spogliatoio Wizards è sospetta, specie coi capricci di Markieff Morris a tenere banco, e da qualche anno a questa parte qualsiasi preview che si rispetti ne ipotizza l’implosione. In un modo o nell’altro ne vengono sempre fuori, grazie in particolare al talento di John Wall, con la preziosa figura di mediatore di Marcin Gortat a stemperare le tensioni tra lui e Bradley Beal. Ma a questo giro, appunto, la dirigenza sostituisce Gortat con Howard che però salta le prime due settimane per un infortunio proprio là dove non batte sole. Il suo rientro è fatto recente: il solito mix di schiacciatone, sorrisoni e sbracciate per richiedere la palla. Peccato che Washington perda di 23 punti in casa contro i Thunder, per uno score complessivo di 1-7. Che dicevamo, a proposito del portapiume?
Se lo dice @RealNBAQuotes dev’essere vero. Purtroppo no. Ma è più bello della realtà, quindi lo prendiamo
DOMENICA 4 NOVEMBRE – FEAR THE DEER
La partita della notte non è delle più competitive (144 punti rifilati ai Kings) ma ci fornisce l’occasione per parlare della sorpresa più piacevole dell’anno. I Bucks fanno sul serio e Giannis Antetokounmpo ha staccato Anthony Davis (raffreddatosi per colpa dei soliti infortuni) come primo candidato al trofeo di MVP. Pare che la ricetta studiata da coach Budenholzer stia finalmente inquadrando il talento di cui i Bucks dispongono nella giusta direzione, liberando il potenziale di The Greek Freak meglio di chi lo aveva preceduto (qualcuno ha detto Jason Kidd?)
Guarda caso, il miglioramento passa da una velocizzazione del gioco e dalla sua polarizzazione tra pitturato (terreno di caccia di Giannis, che ha abbandonato le velleità da giocatore perimetrale per diventare una vera point forward) e linea da tre punti. Altro ingrediente fondamentale è schierare il migliore quintetto possibile senza curarsi troppo dei ruoli, cancellando l’errore che era costato l’inspiegabile panchinamento di Malcolm Brogdon in favore di Tony Snell nell’annata 2017/2018. Intorno al greco, i Bucks schierano l’ex rookie of the year, Eric “Drew” Bledsoe, il tuttofare Kris Middleton e un flottante Brook Lopez che è l’uomo chiave per attirare i lunghi avversari fuori dal pitturato, sgomberando spazio per le scorribande di Giannis. Sempre con l’idea di potenziare il tiro dalla distanza, tallone d’Achille della squadra fino allo scorso anno, dalla panchina entrano Ersan Ilyasova e un positivissimo Donte DiVincenzo (conosciuto anche come Big Ragù e soprattutto il Michael Jordan del Delaware). I numeri spiegano il concetto molto meglio delle parole: i Bucks sono 8-1 in stagione, hanno il secondo miglior attacco (oltre 120 punti a partita) e la quinta miglior difesa, sono primi per rating complessivo, terzi per pace e primi per triple tentate. La tanto bistrattata Eastern Conference si sta rivelando più competitiva del previsto, con tre squadre di assoluta caratura (Celtics, Raptors, Bucks) e i Sixers immediati inseguitori.
https://www.youtube.com/watch?v=27_tlnNszUw
Con queste quattro schiacciate sulla testa dei Kings, Giannis riafferma la sua candidatura a MVP. Occhio all’ultima che è roba da Space Jam
Anche per questa settimana è tutto, appuntamento tra sette giorni per altre sette storie. See ya!
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.
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