In Ontario la frustrazione è tanta, perché al capolinea di una stagione da incorniciare (con 59 vittorie e la crescita tecnica di DeMar DeRozan, condita da una panchina d’inattesa profondità ed efficacia) i Toronto Raptors hanno trovato la solita, sanguinosa, sconfitta contro i Cleveland Cavaliers, rimediando 4 sconfitte consecutive pur avendo chiuso la Regular Season senza mai perderne più di due in fila.
Dopo il 2-4 del 2016 e lo 0-4 del ’17, Toronto rimedia il secondo sweep e la terza eliminazione consecutiva per mano di LeBron James e compagni, una batosta che azzera i progressi compiuti in Regular Season e la crescita di una franchigia presa per mano dal GM Masai Ujiri, anche lui nervosissimo, tanto da essersi preso 25.000 dollari di multa per le frasi rivolte agli arbitri nel corso di Gara 3.
Non mancano i motivi per essere amareggiati o delusi, ma, in tutta sincerità, ha poco senso prendersela con i fischietti –meno che impeccabili, certamente, ma non certo decisivi in una debacle senza scampo, rimediata oltretutto con i favori del pronostico, il fattore campo, la mistica “dell’anno buono”, e chi più ne ha più ne metta.
LeBron James, per il quale la Eastern Conference è una personale Westworld (dove tutti possono sfidarlo ma nessuno può davvero batterlo) proponeva un tema tecnico elementare, quasi da partita al campetto, ma i Raptors si sono prima consegnati alla sua mercé, per poi raddoppiarlo (male), regalando tiri al resto dei Cavs, che, in caso Dwane Casey non se ne fosse accorto, erano lì per quello (71% di Hill, Love, Korver e Smith in Game 4).
Oltretutto Cleveland è squadra a trazione anteriore ma dalla difesa perforabile, solo che DeRozan e Lowry non sono mai stati capaci di aggredirla costringendola a lavorare in aiuto, e anzi, in Gara 4 hanno subito ben 19 punti dalle proprie 13 palle perse, non andando praticamente mai a giocare in transizione. Parliamo quindi di una sconfitta senza appello, un cappotto difficile da giustificare sotto il profilo squisitamente tecnico, e che sconfina necessariamente nell’aspetto mentale del Gioco.
Come ha dichiarato Thaddeus Young ai microfoni di HoopsHype, Toronto non ha dato l’impressione di lottare, ma solo di scambiare canestri coi Cavs fino all’inevitabile imbarcata; forse la serie avrebbe preso una piega diversa se Gara 1 fosse andata ai Raptors, ma anche in quel caso i canadesi hanno messo in mostra il loro proverbiale “braccino”, con il buzzer-beater di LeBron (il secondo della sua strepitosa carriera nei Playoffs) a sancire l’assunto.
Il 128-93 con quale cala il sipario sulla stagione dei dinosauri canadesi non ricade sotto l’egida del “bravi lo stesso”, ed è lecito attendersi che i Raptors vivano un’estate di profondi rinnovamenti, perché queste quattro partite hanno messo tutti in discussione, da coach Casey (maliziosamente ringraziato da LBJ per i suoi miglioramenti) fino a Serge Ibaka, senza dimenticare i due demiurghi, Kyle Lowry e DeMar DeRozan, quest’ultimo panchinato nel finale di Gara 3 e fattosi espellere in Gara 4, a buoi abbondantemente scappati dalla stalla.
Casey ha raccontato della diversa intensità dei Playoffs rispetto alla Regular Season, e nel corso della serie ha provato dei correttivi (rivelatisi ininfluenti rispetto all’andamento della serie), ma non parliamo di una squadra giunta ad un exploit inatteso: questi Raptors sapevano benissimo cosa li attendeva dopo le loro brillanti 82 partite, e si sono fatti trovare con le scarpe slacciate proprio dall’acerrimo avversario contro il quale era lecito attendersi di vederli scendere sul parquet pieni di voglia di rivalsa.
Invece Toronto ha gestito male la palla, ha giocato con intensità rivedibile, e non è stata capace di mettere a nudo i limiti dei Cavaliers, viceversa contribuendo a magnificarne i pregi, spalancando la porta alla batteria di tiratori (alcuni dei quali recalcitranti, come Kevin Love, che continua sentirsi un giocatore completo e non solo uno spot-up shooter) che il fido Koby Altman ha raccolto alla corte di King James.
Marcato da Siakam e Anunoby, LBj ha totalizzato 89 punti col 55% dal campo, con 30 assist e 3 palle perse nelle prime tre partite della serie, quelle in cui Toronto stava giocando (almeno in teoria) per passare il turno, e non solo per provare ad evitare lo 0-4 peraltro concretizzatosi senza strenue resistenze in stile Alamo, anzi.
Anche Kyle Lowry, che chiude i Playoffs con il 50% dal campo, 17 punti di media e 8,5 assist, non ha vissuto una serie entusiasmante (ma almeno ha segnato 27 punti in Gara 3) e a 31 anni, è lecito chiedersi se abbia senso continuare a puntare su di lui in un ruolo da superstar che evidentemente non gli compete, nonostante sia a libri per il 2019 a 31 milioni, per poi salire a 33 nell’ultimo anno dell’estensione firmata la scorsa estate.
Tra i pezzi da novanta dei Raptors, l’unico ad uscire dal campo a testa alta è stato probabilmente Jonas Valanciunas, che nessuno accuserà mai d’esser molle o timido, ma che nel basket del 2018 è condannato ad un ruolo (e un minutaggio) limitato dalla necessità di fare close-out e sprintare dal verniciato all’arco, mentre Serge Ibaka, arrivato da Orlando per portare esperienza e versatilità, ha confermato d’esser un role-player in fase calante, glorificato da 20 generosi milioni annuali di contratto.
DeRozan, cresciuto nella qualità delle proprie scelte (e nella varietà delle conclusioni) durante una splendida RS, è invece il principale imputato per lo 0-4, se non addirittura indiziato di scambio. A 28 anni la guardia californiana è infatti nel pieno della maturità cestistica, fattori che rendono meno indigesto il suo contratto (27 milioni annui da qui al 2021) ma è difficile immaginare una trade che possa produrre un miglioramento per una squadra che ha vinto la Conference e che già occhieggiava le NBA Finals, sia pure da sfavorita.
In estate Ujiri dovrà decidere se estendere un’offerta contrattuale al sorprendente Fred VanVleet, ma questi sono dettagli rispetto alle macro-decisioni sul suo tavolo, a partire dall’allenatore; è certamente ingiusto prendere a paragone il genio cestistico di Brad Stevens e la team-culture che lui e Danny Ainge hanno costruito a Boston, ma anche a Salt Lake coach Quin Snyder schiera un gruppo che sta vendendo cara la pelle contro un avversario nettamente più forte (stesso discorso per Alvin Gentry a New Orleans).
Pretendere a tutti i costi il passaggio del turno contro un gruppo esperto e pericoloso come i Cavs sarebbe troppo, ma era lecito attendersi una sfida combattuta ad armi pari, e solo chi conosce i segreti dell’Air Canada Centre potrà ripartire le responsabilità tra un roster di giocatori apparentemente timorosi, e uno staff tecnico che ha costruito un meccanismo eccellente, ma non l’ha saputo plasmare a seconda delle esigenze di una serie di Playoffs.
Casey siede sulla panchina dei canadesi dal 2011, quando si insediò fresco campione NBA (da assistente dei Mavs di Rick Carlisle) e da allora ha contribuito grandemente a costruire una franchigia finalmente dotata di un’identità. Nessuno può disconoscerne la preparazione e tantomeno le cospicue doti umane, ma è possibile che dopo sette stagioni, ai giocatori serva una voce diversa.
Ujiri dovrà capire se esistono allenatori su piazza che possano fare al caso dei Raptors, e non è affatto scontato che la risposta sia positiva, perché, da Jeff Hornaceck a Jeff Van Gundy, fino alle soluzioni interne come Jerry Stackhouse e Rex Kalamian, senza dimenticare Mark Jackson, non ci sono scelte no-brainer in vista; cacciare l’allenatore è sempre la soluzione meno impegnativa per il Front Office, ma la natura dei crolli di Toronto non può essere ascritta solo a chi tiene la lavagnetta in pugno, e questo sconsiglia di cambiare per il gusto di farlo.
Può anche darsi che Ujiri opti per una strategia di basso profilo, scambiando “pezzi” del supporting cast per portare a Toronto giocatori pronti ad esplodere o dalla precisa collocazione tattica, e in tal caso potrebbero fare le valigie i vari Pascal Siakam, Jakob Poeltl, Norman Powell, O.G. Anunoby, o addirittura C.J. Miles, tutti reduci da un 2017-18 largamente positivo.
Anche questa strada però, non può certo dirsi scevra da trabocchetti, perché Toronto non è stata sconfitta dall’incapacità di risolvere un rebus tecnico (marcare LBJ è un dilemma comune ad altre 28 franchigie), quanto da un problema d’approccio che non si dirime portando in spogliatoio un veterano (l’esperienza di Jason Terry e Matthew Della Vedova coi Bucks insegna).
Può darsi che la soluzione sia un compromesso tra le varie strategie elencate, e quindi i Raptors potrebbero modificare il coaching staff (aggregando uno specialista, come Jeff Bzdelik a Houston), aggiungendo giocatori dal profilo più definito di Siakam o Poeltl, e scambiando la zavorra-Ibaka in cambio di scadenze, ma si tratta di un percorso complicato e irto d’insidie.
A ben vedere, Toronto s’è cacciata in questa situazione puntando forte su due giocatori eccellenti come Lowry e DeRozan, che però non garantiscono un fatturato da superstar, sia in senso numerico sia in termini di personalità, come attestano i 16.8 punti di media col 43% di DeMar contro i Cavs (senza segnare una sola tripla!), con 2.8 assist di media e 2 palle perse a partita.
I Raptors pagano DeRozan e Lowry come se fossero dei Russell Westbrook o dei James Harden, e questo s’è rivelato un peccato mortale anche in un mercato periferico, nel quale è scontato dover strapagare i giocatori (un po’ come a Portland). L’impressione, ad un Oceano Atlantico di distanza, è che le stelle di Toronto finiscano schiacciate dal peso tecnico ed emotivo di dover reggere una parte che non gli compete, e cioè quella dei franchise players.
Lungi dall’esser solo una critica a questi due uomini (o a chi li ha strapagati) parte della responsabilità ricade sullo staff tecnico, rivelatosi incapace di insegnare quei solidi principi che ricadono sotto il nome di “sistema”, come quello di coach Brad Stevens, che un anno fa mise Isaiah Thomas in condizione d’essere un credibile candidato all’MVP, e che quest’anno sta continuando a ottenere risultati anche dopo il forfait di Kyrie Irving e Gordon Hayward.
Kyle Lowry non è un giocatore inferiore a Thomas (intanto perché difende, e il suo onesto decision-making non è peggiore a quello dell’ineffabile Isaiah) ma è privo di un sistema che lo protegga dai suoi stessi limiti tecnici, e gli è stato affiancato un Serge Ibaka buono forse per reggere la coda ad una superstar, anziché un Al Horford che non ruba l’occhio ma porta in dote intelligenza, mani da pianista e carattere.
Lo stesso può dirsi per DeRozan, eccellente giocatore che però non può dover segnare per forza 30 punti tutte le sere contro una difesa di Playoffs, e che non ha altre carte da giocare – non può, cioè, riciclarsi come assistman e non è un difensore-rimbalzista capace di fare onde. Se persino il Barba ha fatto fatica quando s’è trovato a tirare la carretta da solo, è facile capire perché Lowry e DeRozan si trovino spesso a far figuracce quando la palla scotta.
Ci rendiamo conto che i paragoni con Boston (in questo momento probabilmente la migliore organizzazione di tutta la NBA) e con gente come Harden o Stevens siano ingenerosi nei confronti degli onesti professionisti di Toronto, ma rappresentano uno standard utile a capire come le responsabilità siano diffuse tra Front Office, staff tecnico e giocatori, il che esclude l’eventualità di sistemare tutto con un colpo di teatro che intervenga soltanto su una di queste aree, senza riconoscere le lacune nelle altre.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Personalmente mi aspettavo una bella serie combattuta fra Cavs e Raptors, da gara 7, magari vinta da CLE grazie a LBJ, ma cmq, una serie tosta e incerta. Toronto infatti in r.s.mi era apparsa come una squadra equilibrata, ben organizzata, con punti fermi e giocatori di qualità. Ho visto 3 gare della serie(2,3 e 4)e sono rimasto sorpreso dall’arrendevolezza dei Raptors: molli in difesa, incapaci di quantomeno arginare un minimo il Re, poco lucidi in attacco. Le colpe sono varie, tuttavia, il coaching staff non aveva idee chiare su cosa fare e le 2 stelle, DeRozan e L.forse sono solo ottimi giocatori, ma nulla più. Ridurre tutto al confronto fra LBJ e il duo dietro di Toronto con una inappellabile vittoria del primo sarebbe opera ingiusta in un gioco di squadra come il basket, tuttavia pare evidente che il duo dei Raptors ha fatto cilecca completamente: DeR.aveva le polveri bagnate e non ha inciso come in regolar s., Lowry mi è apparso nervoso, frustrato e incapace di incidere e se il duo che ti ha portato fin lì fallisce, diventa difficilissimo combinare qualcosa.