Tra i contrattoni e le operazioni di cui gronda questa off-season NBA, pochi affari hanno risvolti interessanti come lo scambio che ha portato Jimmy Butler a Minneapolis, in cambio di Kris Dunn, Zach LaVine, e una scelta tramutatasi in Lauri Markkanen. Vuoi perché i Bulls hanno imboccato una nuova direzione, scaricando il loro go-to guy, vuoi perché l’hanno spedito proprio alla corte dell’odiato Thibodeau, quest’operazione non può essere solo “business as usual”, colma com’è di risvolti personali, dai rapporti tesi tra Gar Forman e Thibs, a quelli, viceversa ottimi, tra l’ex assistente di Doc Rivers e Butler.
I Chicago Bulls affidarono la loro panchina a Tom Thiboudeau quando questi era solo uno specialista difensivo reduce da un grande triennio a Boston, agli ordini di coach Rivers (tra il titolo del 2008 e la Gara 7 del 2010), e Thibs si sdebitò per la fiducia concessa costruendo un gruppo roccioso, capace di sopravvivere ad una serie infinita d’infortuni (a Deng, a Noah, e soprattutto a Derrick Rose), confermandosi sempre su livelli eccellenti.
Dopo quattro stagioni, Thibs continuava ad estrarre sangue dalle rape e ad ottenere il 110% da giocatori che, altrove, si sono dimostrati alla frutta, ma le frizioni tra lui e il gruppo dirigente (incarnato da John Paxson e Gar Forman) divennero impossibili da nascondere; i Bulls lo delegittimarono in ogni modo possibile, prima cacciando Ron Adams (il suo assistente di fiducia) per un’infedeltà all’organizzazione probabilmente più percepita che reale, e poi accompagnarlo sbrigativamente alla porta alla fine di un 2014-15 chiuso con 50 vittorie.
Forman aveva spiegato la scelta con la volontà di procedere in una direzione più moderna (stilettata riservata all’attacco “old school” di Thiboudeau, da sempre punto debole delle sue formazioni) e invece nel giro di appena due stagioni, i Bulls hanno smantellato tutto e affrontano una ricostruzione che non si preannuncia rapida e tantomeno indolore, mentre il detestato Thibodeau (che nel frattempo ha trovato posto come capo allenatore dei Wolves, di cui era stato assistente già negli anni ’90) è riuscito a saccheggiarli senza colpo ferire.
La prima stagione nelle Twin Cities (sono Minneapolis e Saint Paul, sorte sulle rive del Mississippi) di Thibs è stata tutt’altro che esaltante, confermando l’assunto per cui se il personale iscritto a libro paga non è in grado di assimilare determinati concetti, e se manca quella urgency per cui le cose vanno fatte bene sin dal primo allenamento di training camp, non basta assumere un grande specialista (qualcuno direbbe “il migliore”) per costruire magicamente una grande difesa e una formazione disciplinata.
Thibodeau è arrivato ai Timberwolves per catalizzare lo sviluppo di un gruppo giovane e talentuoso, ma non sarebbe stato giusto chiedergli miracoli (come chi pretendeva da Mike D’Antoni un attacco stellare sempre e comunque, per il solo fatto di chiamarsi D’Antoni), ma solo graduali progressi, e, a dirla tutta, non siamo nemmeno tanto sicuri di aver visto quelli, nonostante Andrew Wiggins sia stato il giocatore più utilizzato di tutta la NBA, e Towns abbia disputato appena 17 minuti in meno dell’ex Kansas.
I T-Wolves erano un cantiere ad inizio training camp, e lo sono rimasti sino all’ultima partita di Regular Season (chiusa con un record di 31 vinte e 51 perse, due in meno dell’anno precedente, quando li allenava Sam Mitchell), alternando lampi di brillantezza e interminabili passaggi a vuoto, durante i quali diventava vieppiù palese l’incompatibilità di quel roster con le idee di Thibodeau, tanto da richiedere un robusto maquillage estivo, che ha consentito a Minnesota di rinforzarsi e di ragionare addirittura di Playoffs.
Thibs e il GM della squadra, Scott Layden (che non ha lasciato un ricordo eccezionale ai New York Knicks), non sono stati con le mani in mano, e dopo aver completato l’operazione-capolavoro con la quale si sono assicurati Jimmy Butler (e scaricato LaVine, in scadenza di contratto, con i postumi di un infortunio al ginocchio da smaltire), hanno draftato il lungo Justin Patton, in uscita da Creighton, un giocatore che dovrà essere sviluppato con calma e che, alla 16, è un rischio calcolato, stante la presenza nel roster di Karl-Anthony Towns, la stella del futuro, al quale si chiede di iniziare a tramutare il suo talento in vittorie, e che ha detto di voler raggiungere i Playoffs “con o senza Jimmy Butler“.
I T-Wolves hanno detto addio anche al centro montenegrino Nikola Pekovic, usando la possibilità, concessa dalla NBA, di tagliare un giocatore da tempo infortunato (ed è il caso dello sfortunato Pek) e poi hanno salutato anche il ridondante Jordan Hill, arrivando così a 25 milioni di spazio salariale per firmare nuovi giocatori, che stanno arrivando a frotte, secondo una logica di team-building che segue le esigenze di crescita dei giovani (quindi minuti, ma anche maestri in grado di mostrare la via), e consente alla franchigia di accelerare la curva d’apprendimento di Towns e Andrew Wiggins.
Nonostante Layden avesse da poco dichiarato di volerlo trattenere, i Timberwolves si sono sbarazzati anche di Ricky Rubio, il play catalano che ha esibito miglioramenti al tiro (indispensabili, per scoraggiare le difese che passano dietro ai blocchi) ed è un difensore accettabile, ma resta un cecchino da 30% da tre (e ha solo il 44.8% da due). Thibs ha deciso che le innegabili doti da play classico di Rubio, il suo carisma e i suoi passaggi spettacolari, non valevano i 28 milioni in due anni che i Timberwolves avrebbero dovuto pagargli, spedendolo a Salt Lake City, in cambio di una futura prima scelta (protetta top-14) degli Oklahoma City Thunder.
A sostituirlo, è arrivato Jeff Teague (triennale da 57 milioni), in cerca di riscatto dopo una stagione buona ma non memorabile ad Indianapolis, dov’è nato ventinove anni fa. L’ex Demon Deacon era la seconda scelta di Thibs dopo Kyle Lowry, e porta in dote molto più atletismo rispetto al catalano (anche in difesa), buona visione di gioco e la capacità di costruire conclusioni in modo discretamente efficiente (true shooting al 57.4%, il 36.4% dei tiri dei compagni assistiti, e 8.1 di Win Shares), oltre ad essere un playmaker più dinamico e moderno.
Minnesota si è ulteriormente puntellata con l’aggiunta di Taj Gibson, in scadenza con i Thunder, e ansioso di riunirsi all’allenatore che lo lanciò ai tempi dei Chicago Bulls. Firmato a 28 milioni in due stagioni, Gibson resta uno specialista difensivo molto duttile (e servirà sul pick-and-roll), un trentaduenne professionale, tosto, che contribuirà a migliorare l’intensità degli allenamenti, diventerà un riferimento per i compagni in campo (conosce le idee e i meccanismi di Thibs a menadito) e porterà durezza e grinta in uscita dalla panchina del Target Center.
Gibson, Teague e soprattutto Butler saranno i leader vocali del gruppo, veterani il cui impatto sarà diverso da quello dell’ultimo Kevin Garnett, carismatico come sempre, ma non più in grado di guidare la franchigia con le sue gesta sul parquet. Jimmy Butler è una stella nel pieno della carriera, e non si accontenterà di qualche timido miglioramento; sarà al centro dell’huddle durante i time-out, e riprenderà anche Towns e Wiggins, se dovessero continuare a spegnere e accendere come hanno fatto fin qui.
Minnesota era una pessima squadra in fase di transizione difensiva, scarsa anche nel proteggere il ferro e nel tenere gli avversari ad un singolo tiro per possesso (oltre ad essere ventiseiesimi in punti concessi per possesso). Jimmy Butler non si limiterà a predicare più attenzione e disciplina (per quello, c’era già Thibodeau, e la cura non ha sortito effetto) ma la metterà in pratica, iniziando dal suo “assegnamento”, e pretenderà altrettanto da chi scenderà in campo al suo fianco.
La Minnesota di coach Thibodeau non si è rivelata granché nemmeno in attacco, indipendentemente dalle conclusioni dietro l’arco (ventesimi per percentuale da tre, ultimi per numero di bombe tentate). Il nuovo quintetto dei Wolves non ha molto tiro da fuori, ma in compenso vanta giocatori capaci di eseguire il pick-and-roll (Jeff Teague ne era stato un interprete a tratti eccezionale ai tempi di Atlanta) e di costruire canestri per sé e per i compagni.
Le spaziature non saranno ideali e ci saranno momenti in cui le difese collasseranno a centro area, ma pensiamo che Minnesota se la potrà cavare discretamente (se ce l’hanno fatta i Bulls di Rondo, Butler e Wade…), e che dovrà viceversa concentrare le risorse dello staff tecnico soprattutto in difesa, dove ha margini di miglioramento sensazionali, con tre veterani orgogliosi, e due giovani leoni dal potenziale atletico devastante come Towns e Wiggins, i cui miglioramenti andranno letti non tanto con le statistiche, quanto in termini di continuità e concentrazione, possesso dopo possesso, partita dopo partita.
In più, è arrivato anche il veteranissimo Jamal Crawford (biennale da 8.9 milioni, ma il secondo anno è opzione del giocatore), tre volte Sesto Uomo dell’Anno, che porta in dote esperienza da vendere e punti veloci in uscita dalla panchina. I Wolves avevano puntato Nick Young, ma Swaggy P ha preferito i Warriors, e così Crawford, finito agli Hawks nel contesto dello scambio che ha portato Danilo Gallinari ai Clippers, si è così trasformato nell’ennesimo veterano (sarà la sua 18esima stagione…) aggiunto al roster dei Minnesota T-Wolves.
Jimmy Butler si troverà a sostenere gran parte delle aspettative stagionali, ma la guardia texana (in scadenza nel 2019) c’è abituata, dopo 6 stagioni a Chicago, nelle quali si è preso un proscenio che, teoricamente, non sarebbe dovuto appartenere ad una trentesima scelta con fama da specialista difensivo dal tiro rivedibile. A Minneapolis Butler troverà una stampa meno aggressiva, ma dovrà lavorare per trasmettere la sua mentalità ad uno spogliatoio che sembra un po’ piatto, privo di evidenti mele marce, ma anche di trascinatori che elevino il rendimento nei momenti topici.
Con 23.9 punti di media, 5.5 assist e 6.3 rimbalzi, Jimmy è diventato un two-way player stellare in difesa e in attacco, dove ha imparato a costruirsi i suoi tiri anche in situazione d’isolamento. A Minneapolis troverà compagni più malleabili rispetto ai marpioni dei Bulls (Pau Gasol, Derrick Rose, Wade e Rondo su tutti) e quindi aperti alla sua influenza. Se la sua etica lavorativa dovesse far breccia nelle mente di Andrew Wiggins, il futuro di Minnesota assumerebbe contorni decisamente rosei.
L’ala canadese, che si accinge a disputare la sua quarta stagione NBA (e a firmare il fatidico prolungamento contrattuale, dopo l’accordo da rookie) resta un oggetto misterioso, dotato di grandissimo talento atletico, progredito enormemente nell’uno contro uno, ma ancora assai distante dal ricondurre una serie di movimenti meccanici ad uno stile di gioco coerente. Soprattutto, preoccupa il carattere di Wiggins, che è davvero un bravo ragazzo, ma, come tale, tende un po’ troppo a delegare, a non essere egoista anche quando un paio di sue iniziative in più sarebbero nell’interesse della squadra.
Nonostante sia stato preso sotto la sua ala da Kevin Garnett, non è diventato nemmeno il devastante difensore che potrebbe essere se mettesse a frutto il suo incredibile atletismo, unito alle lunghe leve e ad una velocità senza palla con pochissimi eguali. Il suo è anche (se non soprattutto) un problema di intensità, attestato dalla miseria di quattro rimbalzi catturati per sera (che sembrano tanti, ma sono appena il 6.3% di quelli disponibili, e non dimentichiamo che ha il minutaggio più alto della lega e non è mai francobollato al suo uomo), e di completezza tecnica e di letture (solo 2.2 assist per un giocatore che usa il 29% dei possessi?).
Allenarsi con Jimmy Butler aiuterà il ventunenne dell’Ontario a capire dove migliorare e come farlo, pungolandolo con l’esempio di una stella NBA che si è fatta da sé, pur avendo mezzi atletici inferiori. Jimmy “Buckets” è uno che, a differenza di Andrew, non ha mai lesinato con l’impegno difensivo, che è in primo luogo questione d’intensità e non di tecnica pura; se KAT è atteso alla stagione della consacrazione, è per assurdo Wiggins quello che ha più margini di miglioramento, e ripetiamo, non è questione di cifre quanto di approccio.
Restano in bilico la guardia UCLA, Shabazz Muhammad (Minnesota ha lasciato che divenisse unrestricted free agent, e quindi verrà ri-firmato solo se non riceverà offerte sostanziose da altre franchigie) oltre al centro ventisettenne Gorgui Dieng, inconsolabile per l’addio del suo amico LaVine, e in predicato di accasarsi altrove se si materializzeranno le condizioni giuste (leggi: contropartita all’altezza). L’impressione è che Minnesota non abbia ancora finito di spostare “pezzi” sulla scacchiera, come conferma l’interesse –emerso prima della firma per i Clippers– espresso nei confronti di Milos Teodosic, e nei confronti di Tony Allen, in uscita da Memphis.
Completano il roster il playmaker Tyus Jones (al terzo anno di professionismo, dopo due annate nelle quali ha avuto poco spazio) i lunghi Adreian Payne e Cole Aldrich (ma Layden sta cercando acquirenti per i suoi 7 milioni di contratto), la guardia Brandon Rush e Nemanja Belica, il serbo al terzo anno di NBA, che ha sorpreso molti commentatori americani, come sempre digiuni di basket europeo.
Bjelica, classe 1988 di Belgrado, è ancora convalescente per l’infortunio che ha accorciato il suo 2016-17 (appena 65 partite giocate) e che gli farà con ogni probabilità saltare anche l’Europeo, mettendolo in condizione per presentarsi al meglio al camp di settembre. L’ex Ulker non è certo una stella in ottica NBA, quanto un giocatore-collante, una cerniera che aiuterà coach Thibs a trovare la quadra di un gruppo nuovo, che avrà bisogno di tempo per conoscersi e cementarsi.
Quali sono le prospettive di questi T-Wolves? Minnesota punta chiaramente ad ottenere risultati già nel breve periodo, e allo stesso tempo, vorrebbe coltivare in un contesto più competitivo le sue due giovani superstar, Towns e Wiggins, nella speranza di vederle sbocciare definitivamente.
Sebbene questo gruppo abbia dei difetti (generale carenza al tiro da fuori, l’equivoco sulla posizione di Towns –centro o ala?-) non si può sottovalutare l’impatto di Jimy Butler e gli altri veterani in un roster già capace di arrivare a 31 vittorie senza incantare in attacco o in difesa. Gibson ci sembra strapagato (ma per solo due anni…), Teague non è poi così migliore di Rubio, quindi in realtà, il vero upgrade “tecnico” è Butler per LaVine. Non è poco, ma meglio procedere coi piedi di piombo.
Servirà del tempo per consentire ai giocatori di conoscersi meglio, e per veder sbocciare i giovani, ma siamo convinti che i Playoffs siano un obiettivo tutto sommato raggiungibile (anche perché i nuovi Jazz sono da decriptare, Portland migliorerà ma resta abbordabile e i Grizzlies tankeranno), e se Karl-Anthony Towns dovesse dare seguito alle premesse poste dalla sua straordinaria combinazione di velocità, coordinazione, talento e forza, l’estate del 2017 potrebbe essere ricordata come l’alba di una nuova era per i Minnesota Timberwolves.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Che i T’Wolves siano stati i Re del mercato per me è abbastanza evidente. Hanno per prima cosa mandato un messaggio: vogliamo vincere, siamo disposti a pagare per farlo, abbiamo messo su le fondamenta e adesso vogliamo ottenere qualcosa, basta scelte, ecco i free-agent. Butler mi sembra uomo giusto per dare sicurezza, punti e difesa, Teague è reduce da annata sbiadita(ma chi ai Pacers ha brillato?)e questo potrebbe essere un problema, ma Rubio aveva avuto tutte le sue possibilità e non è mai esploso, quindi per me hanno fatto bene a darlo via. Jamal C.è un veterano, ha punti nelle mani e può cambiare una partita. Gibson mi è sempre sembrato solido, se prendessero anche Allen darebbero un bel colpo anche alla difesa che coach T.o no, lo scorso anno mi è sembrata spesso in affanno. Ma, al di là dei veterani arrivati, Minnesota punta tutto sulle sue 2 stelle: Wiggins e KAT devono fare il passo in avanti decisivo e mostrare che possono portare la squadra allo step successivo. Questo è fondamentale. Vincere il mercato estivo però non vuol dire nulla, sulla carta le cose stanno in modo, sul campo in altro, nulla è certo nel basket(così come in altri campi..)ma personalmente credo che i T’Wolves abbiano operato benissimo.