Quando menzioniamo le squadre dei grandi mercati NBA il pensiero corre immediatamente alle capitali dell’intrattenimento mondiale, Los Angeles e New York, oppure alle città “storiche” della costa est, come Philadelphia, o Boston; forse persino Miami, dove il basket sta lentamente mettendo radici. Raramente rammentiamo i Chicago Bulls, che pure risiedono nella terza metropoli del Paese, hanno tradizione (non come Knicks e Lakers, certo, ma hanno pur sempre vinto il triplo degli anelli rispetto ai newyorkesi) e, grazie all’epopea jordaniana, restano uno dei marchi più riconoscibili al mondo.
Chicago però, per quanto culturalmente vivace (vanta teatri e musei rinomati, poli universitari di prestigio internazionale sia nel campo dell’economia che in quello dell’architettura) resta una città del midwest, lontana dal glamour delle due coste e dalla logica del tutto e subito: una capitale operaia “dalle spalle larghe”, come recita la poesia di Carl Sandburg, nella quale suggestioni e facili isterismi non hanno vita facile.
Pur essendo nato e cresciuto qualche migliaio di miglia più a sud-ovest, in Texas, Jimmy Butler incarnava perfettamente questo spirito, per cui le difficoltà fortificano, e non bisogna mai farne un dramma. A Houston, Butler ha affrontato indicibili difficoltà anche solo per sopravvivere, prima di incontrare la signora Michelle Labert, che aveva già sette figli e decise che un figlio in più non avrebbe fatto differenza. Non in negativo, se non altro.
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Butler era arrivato ai Bulls con la trentesima scelta nel draft ’11, dopo un onesto triennio a Marquette che ne aveva magnificato le caratteristiche di combattente, senza per questo lasciare intravedere un potenziale da stella o uomo-franchigia, quale poi è effettivamente diventato, costruendo il suo gioco e la sua reputazione con un’etica del lavoro con pochi eguali, issandosi molto al di sopra dei limiti imposti dal suo talento.
All’epoca lo United Center (che registra, invariabilmente, da decenni, il tutto esaurito) si esaltava per le gesta di Derrick Rose, ma Butler era l’epitome dell’attitudine del gruppo guidato da coach Tom Thibodeau (e dal suo assistente, Ron Adams): sudore e difesa, disciplina e cuore. Sono passati tanti anni, e Butler è pian piano diventato l’ultima vestigia di un’era ormai trascorsa, dopo l’addio burrascoso di Thibs e il progressivo smantellamento della sua reggenza, consumatosi nell’ultimo triennio.
A Chicago, i risultati della gestione di Gar Forman e John Paxson non ha avuto la stessa risonanza che avrebbe avuto in alcune metropoli più “mediatiche”, dove sarebbero stati spellati vivi tra un editoriale e un tweet al vetriolo, ma è chiaro che anche nella Windy City la pazienza è ormai agli sgoccioli (nessuno sa però se quest’opinione sia condivisa da Jerry Rensdorf, l’ottantunenne proprietario), e che la cessione di Butler, con contestuale dichiarazione di “ricostruzione”, non è destinata a scaldare i cuori dell’Illinois –è anzi scattata la classica raccolta firme per cacciare GM e vice-Presidente, arrivata oltre quota 7.000 autografi in tre giorni.
A ben vedere, furono proprio Forman e Paxson a innescare la spirale discendente della franchigia, silurando prima Adams e poi Thibodeau per mai chiariti motivi disciplinari (che sanno tanto di gelosie e rancori personali), e poi inaugurando un “nuovo evo” a base di tiro da tre e gioco veloce, arenatosi in partenza (non poteva essere diversamente, visto il personale a disposizione di coach Hoiberg), e ridottosi ad un mesto smantellamento nel giro di due stagioni piuttosto scialbe.
In queste annate, Jimmy Butler era stato il faro della franchigia, prima come difensore, poi anche come attaccante e uomo-spogliatoio, e anche per questo, stupisce la volontà di sbarazzarsene quasi a prescindere dalla contropartita. Certo, le squadre che gli avevano ronzato attorno in precedenza (Celtics, Suns e Cavs) non s’erano mai decise al grande passo, vuoi per i dubbi sulla resa di Butler in un ruolo più limitato, vuoi per la titubanza a separarsi da scelte e giocatori.
Nondimeno, i Bulls l’hanno perso per un pacchetto di limitata prospettiva, il che stupisce, se Chicago ha in mente una ricostruzione del roster dalle fondamenta, ma è anche vero che le squadre vicino al titolo hanno dimostrato di non essere intenzionate a svenarsi per lui, e che le franchigie con scelte alte (in questo o nei prossimi draft) non sono disposte a separarsene. Insomma, una volta stabilito che Butler doveva per forza andarsene, ha vinto la legge del mercato, per cui a spuntarla è stata l’offerta migliore (o meno peggiore) concretamente sul tavolo, quella di Tom Thibodeau, proprio lui, che conta di usare Jimmy Butler per catalizzare lo sviluppo (difensivo e caratteriale) dei suoi giovani e svagati Minnesota Timberwolves.
Per aggiungere l’ex stella dei Bulls al suo roster, Thibs ha ceduto solo Zach LaVine, il modesto playmaker Kris Dunn, e la scelta tramutatasi in Lauri Markkanen. LaVine ha solo 22 anni, ma è reduce dalla rottura del crociato, e potrebbe aver perso parte dell’esplosività su cui basa gran parte del suo gioco. Dunn è un mestierante che in NBA ha faticato non poco, mentre Markkanen è il pezzo forte dello scambio: parliamo di un lungo atipico affascinante, che però deve ancora diradare i dubbi sul suo conto.
Intendiamoci, se Zach LaVine dovesse continuare a crescere e migliorare, se Dunn dovesse riconvertirsi in un valido play di riserva, e se Markkanen dovesse esprimersi al massimo del suo potenziale, questa trade potrebbero anche averla vinta Paxson e Forman, ma sono tanti “se”, alcuni particolarmente azzardati, se non proprio avventurosi.
È più probabile che LaVine si riveli un giocatore di rotazione –un Ricky Davis degli anni 10– e che Dunn –che non arriva al 38% dal campo– continui a stentare a trovare un posto stabile in un roster NBA. Siamo più ottimisti circa lo sviluppo di Lauri Markkanen, ma sarebbe folle dare per scontato che il diventi una stella alla Dirk Nowitzki; questo finlandese ha potenziale e un tiro impressionante, ma per quanto ne sappiamo, potrebbe far la fine di Ryan Anderson.
Per ottenere questo terzetto, i Bulls hanno sacrificato non solo Butler, ma anche la sedicesima chiamata, ossia Justin Patton da Creighton, il cui arrivo in Minnesota ha reso indolore il taglio del perennemente infortunato Nikola Pekovic, e che rende ancor più sbilanciata la trade in favore dei “lupi”; una stella e un comprimario, in cambio di un journeyman, un prospetto intrigante e un giocatore con tanti difetti, alle prese con un infortunio!
Lo stesso Butler è sembrato rammaricarsi, dinnanzi ai taccuini del Chicago Sun-Times, per essere stato scaricato in modo così palese dalla squadra di cui era stato uomo-copertina e leader per un lustro abbondante. Per lui inizia una nuova avventura in cui Thibs non gli chiederà di fare pentole e coperchi, ma solo di giocare bene e di essere un’influenza positiva sui suoi talentuosi (ma svagati) compagni, in particolare Karl-Anthony Towns e Andrew Wiggins.
Chicago, inutile girarci attorno, non sarebbe andata da nessuna parte nemmeno trattenendo Jimmy Butler, ma il problema non era certo l’ex numero 21 bianco-rosso, quanto una serie di scelte frettolose e miopi che hanno tarpato le ali ai Bulls; nessuno poteva prevedere gli infortuni in serie che hanno eliminato Derrick Rose dall’equazione, ma da quel momento, Forman e John Paxson si sono mossi con l’eleganza di un elefante in una cristalleria.
Hanno terra bruciata attorno a Thibodeau (che ha fatto miracoli, costruendo una difesa capace di reggere ad una serie incredibile di infortuni) nel 2014, un anno prima di licenziarlo; lo hanno poi sostituito con Fred Hoiberg in una mossa che voleva essere la replica di quanto fatto dai Warriors con Mark Jackson e Steve Kerr, e che invece gli si è ritorta contro.
Per avere il quadro completo della situazione, aggiungiamoci una serie di scelte al draft discutibili (i comprimari con quattro anni di college vanno benissimo, ma solo se non sono doppioni dei doppioni) e la free agency del 2016, quella di Dwyane Wade e Rajon Rondo, scelti più per il nome e per il pedigree che per assecondare un (inesistente) progetto tecnico.
Mentre Tom Thibodeau si sarà fatto consigliare da Gregg Popovich per stappare una bottiglia di quello buono, a Chicago tutti si chiedono che senso abbia avuto scambiare Butler, se il miglior assetto ricavato dalla trade è paradossalmente la prossima prima scelta dei Bulls, che sarà una selezione di lottery!
Così, mentre i T-Wolves possono iniziare a ragionare di Playoffs (e forse aggiungere qualche altro giocatore con la free agency o scambiando Ricky Rubio) i Chicago Bulls dovranno capire come (e se) far convivere Dwyane Wade e Zach LaVine, oppure Nikola Mirotic (in scadenza, verrà rifirmato, dice Paxson) e Markkanen (l’ex Arizona non ha mai svolto un provino per i Bulls), a meno di volerla buttare sul tanking già a ottobre, in preseason.
Stante l’addio di Rajon Rondo, che salvo sorprese clamorose abbandonerà le sponde meridionali del lago Michigan senza lasciare troppi rimpianti, resta da dirimere la matassa del playmaker, ruolo nel quale i Bulls hanno tanta quantità e ben poca qualità: ci sono Michael Carter-Williams, il neo-arrivato Dunn, il pessimo Cameron Payne, Jerian Grant e Isaiah Canaan a battersi per il quintetto e un posto in rotazione.
La situazione in guardia prevede invece un Wade che firma per restare nel suo principesco contratto (lo pagherà 23 milioni e 800 mila dollari fino all’estate 2018) dinnanzi a LaVine e Denzel Valentine, mentre in ala piccola evoluirà forse Paul Zipser, giocatore di culto esploso nel corso della serie contro i Celtics, e sotto canestro Hoiberg dovrà inventarsi qualcosa con Mirotic, il positivo Bobby Portis e Markkanen, posto che Felicio e Lauvergne sono free-agent (pensare che i Bulls hanno scelto anche Jordan Bell, spedito a Oakland in cambio di 3.5 milioni!).
Come detto, i Chicago Bulls non sarebbero stati particolarmente competitivi nemmeno trattenendo Jimmy Butler, ma ora che l’hanno ceduto rischiano davvero di collassare nel modo peggiore, magnificando da un lato il valore two-way di Butler, che rivitalizzerà i Wolves, e dall’altro, esponendo la pochezza di tante delle loro scelte recenti, che hanno prodotto un roster poco equilibrato, disfunzionale e povero di talento.
Ora si ripartirà dal draft, certo, ma ci sembra più la classica operazione di smantellamento frettoloso da parte di un pessimo management intento a guadagnar tempo e salvare la poltrona (e relativo stipendio) quanto più a lungo possibile, che non la mossa di una franchigia avveduta, decisa a costruire con contezza attorno ad un Lauri Markkanen ritenuto adatto ad un (improbabile) ruolo di uomo-franchigia del futuro.
Il finlandese potrà segnare tanto sin da subito grazie ad un tiro proibito e alla splendida coordinazione (notevole, per un 2.13), ma difensivamente desta qualche interrogativo, sebbene abbia la mobilità per rendersi utile, almeno in marcatura individuale. Per di più, è un rimbalzista accettabile in difesa (17.5% rimbalzi disponibili conquistati) e molto meno in attacco, dove però le sue cifre sono condizionate dalla tendenza a tirare dalla lunga distanza.
È adatto a giocare nell’attacco di Hoiberg e contribuirà a migliorare le spaziature, ma il contesto lascia a desiderare, tra superstar intente a sparare le ultime cartucce (Wade), giocatori in cerca di sé (Carter-Williams, Mirotic) e qualche mestierante in cerca di un nuovo contratto; sempre che Flash non stia, in realtà, semplicemente facendo la voce grossa per negoziare un buyout che gli consenta di testare la free-agency (le possibili destinazioni vanno dal ritorno ai Miami Heat, alla firma per i Cleveland Cavs, senza escludere le due squadre di L.A.) con qualche milione in più in tasca.
È un’ipotesi tutt’altro che peregrina, anche perché se i Bulls vogliono tankare, conviene farlo per bene, e Dwyane Wade “minaccia” di far vincere qualche partita in più (è assurdo scriverlo, ma è così che stanno le cose), per cui potrebbe valer la pena pagarlo per andarsene, in buona sostanza. In fondo, sarebbe solo l’ultimo di una lunga serie di benserviti, a cominciare da Luol Deng, per finire, l’estate scorsa, con Rose e Joakim Noah, che andandosene, hanno tutti sbattuto la porta.
I fans dei Bulls più speranzosi stanno già scrutinando la prossima classe di rookie (i più quotati? Michael Porter Jr., Luka Doncic del Real, e DeAndre Ayton), mentre gli altri si chiedono quanto potranno durare ancora in sella Paxson e Forman, perché in fondo, se Chicago si è ridotta a tankare, è solo a causa delle loro scellerate decisioni.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.