14-0. Mai nessuna squadra ha inanellato così tante vittorie consecutive ai playoff. È solo l’ultimo dei tanti record che portano la firma dei Golden State Warriors, e d’un tratto la possibilità di chiudere con un avveniristico 16-0 non sembra poi così remota.
I Cavs venderanno l’anima pur di difendere il parquet di casa, ma la domanda che resta appesa nelle nostre teste dopo gara 2 è questa: cosa può fare di più Cleveland?
I miglioramenti, tanto attesi dopo la prima sfida, si sono visti e su tutti i fronti: tecnici, tattici, d’intensità. Il risultato però non è stato differente, coi Warriors che hanno superato gli ostacoli con una impressionante prova di maturità – quella che era mancata nel 2016 contro i Thunder e gli stessi Cavs.
Insieme a questa, c’è la capacità di estrarre sostanza da situazioni nuove, aggiustate in corso d’opera, forse anche grazie al ritorno in panchina di Steve Kerr – che a quanto pare resterà per il prosieguo della serie e sicuramente sa leggere la propria squadra con un occhio più clinico di Mike Brown.
Sfogliando le pagine del libro dei record e addentrandoci nelle cifre, la verità parla in faccia a chi lamenta la scarsa competizione nell’NBA odierna o cita un inspiegabile decadimento dei costumi. Quello dei Warriors è il miglior attacco mai apparso su un campo da pallacanestro, capace di segnare 40 punti in un quarto d’apertura dove gli avversari rasentano la perfezione e danno fondo alle energie – che difatti mancheranno nella seconda metà di gara.
La controparte offensiva dei Cavs è solo di poco inferiore, e ne mette 34, che però non bastano. Così come non sarà sufficiente aver ribaltato, alla sirena, alcune delle voci statistiche più preoccupanti di gara 1: Cleveland costringe Golden State a 20 palle perse, ruba 15 palloni e genera 31 punti in contropiede; coinvolge Draymond Green nell’ennesima partita difficile sul versante falli decurtandone i minuti in campo, limita Steph Curry a un primo tempo da 6 turnover con 1/6 al tiro.
Allora perché, esattamente come in gara 1, i Dubs prendono il largo tra terzo e quarto parziale per chiudere la partita con 132 punti – totale che non si vedeva da trent’anni nelle Finals?
Punto primo: perché l’attacco di Golden State trova sempre il modo di fare male quando vive una tale situazione di fiducia, sia fisica che mentale, e guadagna punti facili (85% concesso dai Cavs al ferro).
Si è detto del difficile esordio di Steph, ma il 30 da Davidson si è aiutato da solo a ingranare la giusta marcia conquistandosi 14 viaggi in lunetta. Green e Iguodala, battezzati e cresimati al tiro, non deludono registrando rispettivamente 3-6 e 1-4.
Klay Thompson si rimette nella serie da par suo, attaccando il ferro quando il tiro non entra e recuperando finalmente confidenza con le conclusioni dalla distanza. Come spesso accade, i suoi contributi arrivano nei momenti chiave della partita e il suo apporto pesa ben più dei 22 punti con 4-7 dall’arco.
L’impatto di KD sulla serie, poi, meriterebbe un’analisi a parte. Basterà far notare come stia giocando per il titolo di MVP delle Finals oltre che per il Larry O’Brien Trophy, che nella sua testa dev’essere già dalle parti della baia.
LeBron si concede meno possessi in single coverage su di lui, ma quando lo fa alza il volume della difesa. Coach Lue prova a infastidirlo con Shumpert e nascondendo Love sulle sue tracce in attesa dello switch, e in generale Cleveland dà un giro di vite ai fast break con cui Durant ingrassò il proprio fatturato in gara 1.
Nessun problema. Alla sirena il tabellino dice 33, col 60% dal campo e il 50% dalla distanza. Ecco un esempio di cosa è capace di fare Durantula. Qui stoppa agilmente Kevin Love, recupera palla e segna dall’altra parte in avvitamento – uno schema già proposto nel primo tempo con un tempestivo aiuto su Kyrie Irving.
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E qui veniamo al punto secondo: la difesa di Golden State non perde colpi nemmeno quando l’attacco wine & gold, a sua volta uno dei più avanzati nella storia del gioco, raffina le proprie strategie.
Si può discutere all’infinito sulla dubbia moralità che guida le scelte tattiche di coach Lue – alzare il ritmo di gioco per stare al passo coi Dubs è davvero la soluzione giusta? Quel che conta è che in gara 2 i Cavs hanno eseguito il gameplan con perizia.
La tripla doppia di LeBron è lì a testimoniarlo, con tante letture lucide: servire Kevin Love in posizioni e contro marcatori a lui più congeniali, spaziature più ampie per facilitare il lavoro allo stesso James, attaccare Draymond Green dal palleggio neutralizzandolo come difensore in aiuto, spingere l’acceleratore quando in campo ci sono le seconde linee come McGee e Ian Clark. Golden State però risponde con un Klay Thompson monumentale che controlla il ritmo della difesa e costringe Irving a un modesto 8-23 dal campo.
Ma il grande tema tattico di gara 2, quello che ci spinge come un manifesto futurista verso l’avvenire di una pallacanestro positionless, è la partita difensiva di Kevin Durant. Dicevamo della bontà degli adattamenti in corsa di Steve Kerr. Ecco che, quando Green esce dal match per problemi di falli, Golden State propone un quintetto quasi inedito (8 minuti in stagione) che però frutta subito un vantaggio di 14 punti per un net rating di +16.0.
Il perno della lineup è Kevin Durant da centro – uno che, al primo anno coi defunti Sonics, giocava da shooting guard e che al draft combine non sollevava il minimo carico richiesto alla panca piana. Libero di sfogare la propria versatilità, KD manca di una rubata il 5×5 di kirilenkiana memoria, solo che lui ci mette pure la doppia cifra in punti e rimbalzi.
Che sia tratti di un caso, o della mortifera forma finale assunta da death lineup e Hampton Five assortiti? Questo sarà materiale per approfondimenti da fine stagione.
Per adesso, prepariamoci a vedere con quali nuove soluzioni i Dubs si difenderanno dal prevedibile arrembaggio Cavs alla Quicken Loans Arena.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.