È passato tanto tempo da quando tutto è iniziato. Accendo la TV e mi preparo ad assistere alla partita, in diretta, intanto leggo quel che twittano Mike Trudel e gli altri insider dei Lakers, quelli che –beati loro– sono lì, allo Staples, assieme ad altri ventimila fedeli, raccolti per l’ultima messa della religione pagana dedicata all’uomo chiamato come una bistecca.

Quando questa ventennale avventura era agli albori, ci saremmo alzati la mattina successiva, e avremmo cercato il risultato delle partite su Televideo (e se non sapete così, buon per voi, vuol dire che siete giovani!). Con un po’ di fortuna, ci sarebbero stati scritti i nomi dei due migliori realizzatori della serata, e questi erano gli “highlights”. Sono passati vent’anni, e, almeno sotto quest’aspetto, non sono passati invano.

Ci siamo, s’inizia. A fare gli onori di casa è Magic (che lo aveva presentato anche a Toronto, All Star Game), che lo fa emozionare quando dice che Kobe è il più grande Laker di sempre, per poi ricordare quando ha giocato infortunato, e snocciolare titoli e record.

Shaq, Fisher, Durant, Dwyane, Dirk, Popovich, KG, Carmelo, Steph, LBJ, Pau, Lamar, Jackson, Jack Nicholson, hanno tutti lasciato un piccolo omaggio video. Standing ovation.

Parte Baba O’Riley, e quando Lawrence Tanter annuncia la guardia da Lower Merion, viene giù lo Staples. Abbracci con tutti, saluti a qualcuno in platea, mentre Lisa Salters racconta che Byron Scott vorrebbe far giocare il Mamba per 36 minuti.

Ah già, ci sono anche i Jazz, poveretti. Non frega niente a nessuno, e non stanno nemmeno più giocandosi l’accesso ai Playoffs; peccato, perché questo avrebbe contribuito a fare della gara una partita vera, come, siamo sicuri, vorrebbe Kobe. Almeno questo, in una stagione che di competitivo ha avuto poco. Non è detto che non lo sia lo stesso, stiamo a vedere.

Primo tiro: corto. Secondo tiro: lungo. Poi arriva un recupero. Il confronto con le immagini che scorrono dalla mattina è impietoso; i movimenti sono sempre lì, ma non la velocità o l’elevazione. Bryant va in penetrazione, L.A. è già in visibilio, ma sbaglia l’appoggio.

https://www.youtube.com/watch?v=XsnhE4Kxl0A

La prima volta che gli vidi giocare una partita intera, era l’All Star Game 1998, al Madison Square Garden, non una brutta gara per fare la sua conoscenza. All’epoca, Michael Jordan aveva ormai sottomesso una lega che teneva in pugno, in un misto di rassegnazione e ammirazione per His Airness. Tutti, tranne uno.

Il ragazzotto cresciuto (anche) a Reggio, che con la sfrontatezza del teenager, faceva segno a Karl Malone di levarsi di mezzo, perché voleva affrontare MJ in uno-contro-uno.

Era una guardia longilinea, che si muoveva come una pantera; uno slasher puro con un valido gioco a metà campo, ma distantissimo dalla completezza cui sarebbe arrivato anni più tardi, grado per grado, allenamento dopo allenamento, con una fame che non si è saziata con gli All Star Game, con i titoli o con i trofei individuali.

Arriva ad El Segundo in elicottero, ma ha continuato a lavorare come se dovesse fare la squadra della Summer League, ha costruito il suo gioco, pezzo dopo pezzo, senza mai pensare “ecco, sono arrivato”.

Tecnicamente parlando, è l’esterno più completo di tutti i tempi; bimane, abbina una perfetta padronanza dei fondamentali, la capacità di inventare giocate che sono figlie di una conoscenza enciclopedica del gioco, e un talento raro, perché non si ferma al corpo, ma arriva alla mente.

Rimbalzo lungo, guida il contropiede, poi va spalle a canestro, tira e sbaglia anche questo. Altro rimbalzo, ma questa volta la passa, Russell trova Hibbert per la schiacciata e finalmente i Lakers vanno a referto.

Ora si è stufato; tira una stoppata a Booker, poi dall’altra parte si arresta, pump-fake, e canestro con parabola altissima. Anche quando fa una bella giocata, però, è inevitabile il confronto con quello che faceva 5 anni fa, 10 anni fa, 20 anni fa.

Uff… arriva anche il jumper, si è scaldato. Si isola, size-up su Hood, va dentro, prende il fallo e il canestro. Sì, è decisamente caldo, e anche se va alla metà della velocità di una volta, è ancora abbastanza per fare bella figura.

Ragazzi, altro canestro, questo sì, puro vintage. Lo costruisce col movimento, taglia fuori Hood, e quando riceve, è già in ritmo. Lo rifà l’azione successiva. Sembra la partita degli 81.

I compagni iniziano a gasarsi, ma poi sbaglia una tripla presa da distanza siderale, e durante il time-out, parte il provvidenziale video della partita con Portland, giusto per ricordare che se sembra speciale quel che fa adesso, c’è stato un tempo in cui faceva meglio, con o senza afro, con Shaq e senza, con l’8 o con il 24.

Eppure, nonostante le serate da cinquanta, quelle da sessanta, le triple doppie e i numeri memorabili, ha sempre e solo giocato per vincere, e c’è una differenza. Ci sono giocatori di cui tutti parlano bene, che poi si ritirano, e ti rendi conto che il loro impatto sulla squadra e i compagni è stato prossimo allo zero.

Povero Hood, sarà una serata che potrà raccontare ai nipotini, ma non dev’essere bello; Kobe lo frega con la vecchia mossa, lo aggancia e si porta a casa tre liberi. Segnati.

Siamo a 14, e manca un minuto e mezzo nel primo quarto. Si torna da lui, e spadella un tiro di stanchezza. I ragazzini esagerano, com’è nella loro natura; gli passano qualsiasi pallone, e quindi si torna da lui, ma questa volta la passa. La palla gli torna in mano nel giro di due secondi, ha spazio, ci prova e sbaglia. A volte se tiri tanto, è anche perché sei talmente Alfa che gli altri deferiscono naturalmente. Poi serve l’assist per D’Angelo Russell, libero da tre, che sbaglia.

Non poteva mancare l’intervista a bordocampo con Jack Nicholson, che però una cosa vera la dice: anche quando nient’altro funzionava, c’era comunque Kobe, e infatti i Lakers hanno con lui un debito, a dispetto di quanto abbiano contribuito alle casse della famiglia Bryant.

Kobe rientra in campo, e forza una tripla dall’angolo che non va. Ah già, è egoista. Però il grande nemico, Shaq, è venuto di persona a salutarlo, seduto in prima fila, e da qualche parte c’è anche Robert Horry.

Altro canestrino, e lo Staples impazzisce. Voi non tendereste a fidarvi dei vostri mezzi se se sapeste fare certe cose, non per grazia ricevuta, ma grazie al duro lavoro che i vostri compagni non stanno facendo?

Intanto scatta un altro giro in lunetta, mentre il pubblico canta MVP-MVP. Ormai succede in ogni arena NBA ogni qual volta la star locale si esibisce al tiro, ma è una moda nata per Kobe, a Los Angeles, nel 2007. Erano gli anni in cui dominava, ma la squadra faceva schifo, e la stampa, che non l’ha mai amato, approfittava per dire che non “migliorava i compagni”. Andatevi a rileggere i nomi dei giocatori che ha portato ai Playoffs, e in fondo anche quelli con i quali ha vinto il titolo; forse ne ha un po’ elevato il rendimento, che dite?

Finta con la testa, il difensore salta, prende la tripla e la mette. Dopo il time out ci riprova, e non va. Questo ha ancora voglia, non scherziamo. Dategli un paio di gambe nuove, e riprende a seminare quarantelli a destra e a manca. Si isola con Trey Lyles, lo batte a stento dal palleggio, e sbaglia il tiro. Il giro successivo lancia il contropiede andando dietro la schiena. Poi è il turno della vecchia penetrazione con arresto e passo d’incrocio. Fallo. Altro giro in lunetta. Two for two.

Fine primo tempo, c’è anche spazio per il tiro allo scadere contro Hayward. La palla balla sul ferro, ma non entra. Intervallo.

L’amarcord è inevitabile, mancano solo 24 minuti al definitivo addio di Kobe Bean Bryant, gli ultimi 24 minuti di una carriera lunga 48.595 minuti, con 33.583 punti, buoni per il terzo record di sempre. Di statistiche, con Kobe, se ne possono citare proprio tante, ma non è mai stato quello il punto. Come ha detto lui, per lui non è mai stata questione di “lavorare duro”, ma di fare quel che gli piace il più possibile.

Questa è passione vera, quella che ti spinge a non cercare scuse, perché, in fondo, nemmeno le vuoi. Un dito rotto alla mano dominante è un’opportunità, una sfida a elevare ancora il proprio gioco, e finire con il vincere due MVP delle Finali, con un dito rotto alla mano destra. È questo il motivo per cui è sempre piaciuto a Michael Jordan, che probabilmente vide in lui il primo giocatore a non avere paura di lui dai tempi di un altro mostro sacro gialloviola, Magic Johnson.

Bryant è a 22 punti, il resto della squadra a 20, e L.A. è sotto di 15. È un peccato che anche Kobe non abbia avuto il finale di carriera di Tim Duncan, che non è poi tanto messo meglio a livello fisico, ma ha attorno una squadra vera. I Lakers invece, dopo l’eliminazione del 2011 hanno fatto tutti gli errori che era umanamente possibile fare, ed eccolo qui, in una squadra di ragazzetti che (si spera) diventeranno famosi, e di veterani bolliti.

Ecco che Kobe l’appoggia, e sembra quasi (quasi) che galleggi come una volta. Si torna subito da lui, zingarata da cinque metri, e arriva un altro canestro. Adesso tira da tre, per poco non la mette, ma Hibbert fa tap-out, e Kobe segna in entrata, e quasi (quasi) schiaccia. Anche oggi, a quasi 38 anni, l’unico motivo per il quale la partita non è già completamente finita è questo nonnetto che gioca con una fame che i suoi giovani compagni di squadra si sognano.

Tira da metà campo dopo che lo “schema” è saltato, allo scadere. Ferro. Altro tiro, altro ferro. Per qualcuno, è la cifra dell’egoismo, ma che senso avrebbe, seriamente, passare buoni tiri tanto per far tirare gente alla quale, palesemente, interessa meno? Bel tiro da tre, facile, ma è un air ball. E qui i nodi vengono al pettine, quelle gambe hanno qualche minuto di autonomia, e poi ci si deve letteralmente arrangiare.

Recupera un pallone intercettando un passaggio e va spalle a canestro, solo per pescare in angolo Russell, che anziché tirare la passa, e così la palla torna in mano a Bryant che non può evitare l’infrazione di 24 secondi. L’azione successiva Kobe va in entrata, rimbalzo sul ferro, che stavolta gli sorride. Sono 30, ma con 29 tiri.

Anzi, no, c’è Neto in marcatura, gli segna in testa il suo fadeaway: facciamo 32. Anzi, 35, perché c’è spazio per una tripla senza ritmo, di quelle senza senso, che ha passato la carriera a mettere dall’angolo. I Lakers intanto sono rientrati in partita, sul 67-62 per Utah, che è complice, ma fino ad un certo punto.

Di nuovo tiro da tre da fermo, questo non va. Poi una ricezione imperfetta, e al giro dopo, dalla stessa posizione, riceve e chiude in penetrazione nel traffico. Altri due. Sta per prendere un’altra tripla, ma le zebre rilevano il blocco in movimento di Randle, e il fischio gli toglie il tiro; Kobe tira un’occhiataccia a Monty McCutchen, l’arbitro, e poi ci riprova allo scadere, ma non se ne fa niente.

In carriera Bryant non ha segnato molti tiri allo scadere, ma ha sempre messo una pressione assurda sulla difesa avversaria, buzzer beater o meno. In clutch, pochi hanno fatto meglio di lui, e questo era vero quando aveva vent’anni e faceva il ribelle con Shaq, così come quando divenne “the closer”, nelle parole di Jeff Van Gundy, durante gli anni con Pau Gasol.

Due difensori fissi su di lui, più un terzo che lo guarda. C’è gente come Derek Fisher che ha costruito una carriera su tutto questo spazio che Bryant ti regalava. Persino Smush Parker, con KB vicino, era sembrato un playmaker NBA più che passabile, quando il resto della sua carriera sta a testimoniare il contrario.

Altra tripla tentata, sbagliata, ma Larry Nance segue a rimbalzo e segna. I Jazz però sono tornati lontani, a + 14. Isolamento per Kobe, che prova il vecchio movimento con partenza verso il centro, cambio di direzione a desta e arresto per il tiro, ma non entra. Poi si prende una stoppata in equilibrio precario.

Diventare vecchi è anche questo: dare l’opportunità ai giovani di batterti, di sfidarti, una volta tanto, da una posizione di vantaggio. Accidenti, altro tiro da tre in transizione, questo però lo mette. E sono 40. Kobe-Kobe, canta il pubblico durante il time-out prontamente chiamato da coach Snyder, che con Bryant ha lavorato nel 2012, e non vuole farsi sfuggire la partita dalle mani.

I grandissimi riescono a farsi apprezzare anche in queste condizioni; MJ era uno spettacolo anche nella versione appesantita vista in maglia Wizards, e Magic, nel 1996, con una panza imbarazzante, era ancora capace di dipingere basket come solo lui ha saputo fare. Kobe esce dal time-out caldino anziché no; spara la tripla, e sono 43. Ci riprova al giro successivo, ma non può entrare, è una conclusione impossibile. Poi prende un rimbalzo e nello stesso movimento lancia Clarkson a canestro.

Finalmente, è il turno degli altri. Black molla una stoppata tonitruante, recupera il pallone, sull’altro versante arriva l’alley-hoop per Nance Jr. e lo Staples esplode. Intanto Kobe è a 43 punti con 40 tiri, ma chi se ne importa. Di certo non interessa a Kobe, che prende il quarantunesimo tiro aiutandosi con il blocco di Randle e lo mette. Facciamo 45 punti, con cinque minuti da giocare e la partita in bilico.

Poi sbaglia tre tiri consecutivi, e Utah torna ad allungare, 93-84, costringendo Byron Scott al time-out, che Bryant passa a guardare i tributi sul jumbotron, senza l’espressione di furiosa determinazione che ha sempre usato in queste situazioni. Per certi versi, il fatto che sorrida mentre perde, tradisce quant’è vicina la fine, ancor più che le sue condizioni fisiche.

Arriva a 47, ma mancano due minuti, e i suoi men che irresitibili compagni non sembrano proprio sul pezzo. Si isola con Hayward, se lo lavora in palleggio e riesce a spremere un fischio mentre Gordon si fa ingolosire dalla possibilità di stopparlo.

MVP-MVP, canta lo Staples, mentre le telecamere indugiano sulla famiglia Bryant, Vanessa e le due figlie, sorridenti, e poi su Shaq, che, sarà la suggestione, ma ci è sembrato seriamente partecipe. Bryant intanto non ha mica finito, segna i liberi e poi un altro canestro in transizione, arrivando a 51.

Se non avesse preso tutte quelle triple (20, solo 5 a segno), avrebbe anche delle buone percentuali. E poi si incarica di un altro tiro, e mette anche questo! 53. Al giro successivo, ennesima tripla malconsigliata, ma la mette, e sono 56, con i Lakers a meno uno. Giusto così, è stato incredibile per vent’anni, e si è tenuto le ultime cartucce per l’uscita di scena. Questa volta, durante il time-out non guarda da nessuna parte, è il vecchio Kobe, almeno per un secondo. Cerca quella concentrazione che l’ha fatto grande, per mettere l’ultima, piccola, forse insignificante zampata, solo per l’orgoglio.

La palla, come da copione, è in mano a lui. E poteva non segnare l’ennesimo canestro assurdo? Lo Staples è una bagarre, non ci crede nessuno, i Lakers sono davanti. Utah sbaglia, palla in mano a Kobe, e Utah può solo spendere falli per spedirlo in lunetta. Il pubblico è in piedi, sembra che si stia per vincere una Finale NBA.

Sono gli ultimi tiri liberi di una carriera che è ora consegnata alla leggenda. MVP-MVP, canta ancora una volta il pubblico. Il primo va. Il secondo pure. Fanno sessanta punti. Game, set e partita. Per l’ultima volta. È tempo di saluti, è tempo di lacrime e nostalgia.

Kobe Bryant ha smesso di giocare a basket.

 

9 thoughts on “L’ultima leggendaria partita di Kobe

  1. Ottimo articolo, detto da un Kobe-hater della prima ora ;) Sulla sua carriera niente da dire, si merita una bella uscita di scena. Però ho una vocina che mi spinge a fare l’avvocato del diavolo; se a 40 non aveva più una squadra competitiva, a differenza di Duncan e altri, un paio di motivi ci sono…

  2. Bellissimo articolo..Kobe finale leggendario..ha vinto da solo un match che era in garbage time..dopo aver sparacchiato x 3quarti, ha deciso di vincerla.. Mai + vedremo un giocatore cosi

  3. Kobe e’ sempre stato un individualista..non ha mai “costruito” una squadra attorno a lui ed ha vinto solo quando aveva lo Zen..nonostante questo, e’ stato un campione assoluto..il suo sguardo da vincente manchera’ al basket

  4. Rispondo ad Andrea Cassini: Se il figlio di Peter Holt fosse diventato GM degli Spurs e avesse iniziato a scambiare tutti quelli che gli ricordavano Buford (oltre ad allontanare Popovich), probabilmente anche Duncan sarebbe finito ad intristire in fondo alla Western Conference, secondo me! :)

  5. Vero anche questo Francesco, poi se vogliamo in favore di Kobe c’è anche la trade di Paul saltata per le famigerate “basketball reasons” che poteva rilanciare i Lakers alla grande. Quel che volevo, con leggerezza, sottolineare è che mentre c’è gente che fa la fila per andare a San Antonio o a giocare con James, nonostante le attrattive di Los Angeles i Lakers hanno raccolto pochino sul mercato. Il “contrattino” di Kobe e i suoi gusti difficili in fatto di compagni di squadra credo abbiano la loro parte :)

  6. Quando L.A. era competitiva, arrivavano i Karl Malone, Gary Payton, Mitch Richmond, Ron Artest, Matt Barnes. Quando la squadra ha smesso di essere competitiva, non sono più arrivati, ma è significativo che quest’estate, LaMarcus Aldridge abbia dichiarato che la sua scelta si era ridotta tra Lakers e Spurs; nonostante tutto, li ha presi in serissima considerazione, e penso che nessuno possa dire che se ha optato per San Antonio, sia dipeso dal carattere di Duncan, quanto dal diverso contesto tecnico e dalle chance di vincere.

  7. Andrea Cassini hai ragione: dobbiamo essere obiettivi, il contratto di Kobe ha limitato assai le probabilitá dei Lakers di costruire una squadra seria dopo la partenza dello Zen. Avrebbe potuto rinunciare a qualcosa per avere al suo fianco dei giocatori di livello: non lo ha fatto, pensando evidentemente di poter vincere da solo.
    Anche quando ha avuto la possibilitá che arrivasse Chris Paul o ha avuto Nash e Howard, non ha mai pensato di poter vincere grazie a loro..
    Ricordiamoci che Kobe non ha mai costruito una squadra vincente: Gasol, Fisher e Artest sono diventati dei campioni perché lo Zen era in panchina..
    I Lakers di Kobe, senza Phil Jackson in panchina, non avrebbero mai vinto un titolo..

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