Tra i soprannomi di Giannis Antetokounmpo c’è l’imbarazzo della scelta: dall’assonante The Greek Freak all’originale The Human Alphabet, per finire con la sintesi estrema di G-Bo. Agli americani, si sa, non piace perdere tempo a pronunciare nomi troppo lunghi, specialmente se fanno ingarbugliare la lingua.
La lista degli aneddoti sul suo conto è, se possibile, ancora più lunga. Messi insieme formano un collage tragicomico sulla falsariga del ragazzo di campagna pozzettiano; quella che c’è dietro, però, nascosta dietro le risate agrodolci, è una storia di immigrazione e povertà.
Come il senso di colpa che assalì il buon Giannis dopo aver investito 399 dollari in una Playstation 4, prontamente rivenduta a prezzo pieno all’assistente Nick Van Exel.
O la cena in un ristorante di grido in cui lui e il fratello Thanasis si concessero nulla più di un piatto d’insalata a testa. E ancora: dalla consulenza finanziaria di Zaza Pachulia (“c’è un modo per non pagare le tasse?” gli chiese, dopo aver sbustato il suo primo stipendio) alle corse col borsone in spalla per raggiungere il Bradley Center in tempo per la partita.
Poi si organizzò meglio, si faceva dare uno strappo da Nate Wolters, compagno rookie; doveva essere una vista bizzarra, quella di un playmaker bianchiccio da St. Cloud, Minnesota, alla guida di una banale Mazda incrostata di neve con il lunghissimo Giannis stretto sul sedile del passeggero.
La lista, volendo, continua. Dagli scatoloni di cibo avanzato riportati a casa dal players’ lounge alle scarpe di Gucci che provava soltanto nel suo appartamento, per paura di rovinarle.
Sempre a proposito di scarpe, c’è la storia di quando apostrofò Caron Butler per averne buttato un paio ancora buono. Lui ne sapeva qualcosa, abituato a spartirsele col fratello quando calcavano gli scalcinati playground di Sepolia, sobborgo di Atene.
Sbarcavano il lunario aiutando i genitori nei loro lavori modesti, anche come venditori ambulanti. Non serve specificarlo, ma non c’era molto amore per una famiglia di immigrati nigeriani nella Grecia dei primi anni 2000, che pure aveva avuto la nobile idea di battezzare i – numerosi – figli con nomi ellenici, in segno di integrazione.
Oltre agli aneddoti simpatici ce ne sono anche di meno divertenti. Come quando, dopo il draft 2013, il leader di Alba Dorata Nikolaos Michaloliakos si chiese: “Se dai una banana e una bandiera a uno scimpanzé dello zoo, sarà greco?” e suggerì che Antetokounmpo fosse arrestato al suo ritorno in patria.
Non è questa la sede per avviare un dibattito politico, ma mentre Michaloliakos entra ed esce di prigione Giannis fa parlare di sé tutta l’NBA. E greco lo è di certo, se ne sono accorti gli avversari della sua nazionale agli ultimi europei e se ne accorgerà, con tutta probabilità, anche la selezione italiana nel prossimo preolimpico di Torino.
La pallacanestro, come inevitabilmente accade in queste storie a lieto fine, ha salvato Giannis e tutti gli Antetokounmpo, trasferitisi in blocco in America.
Ne hanno viste troppe per lamentarsi dei freddi inverni del Wisconsin; comprano un cappotto e aspettano l’estate. Ora sono gli altri che chiedono a Giannis di essere salvati.
La comunità di immigrati africani in Grecia, che lo ammira con un modello, e la città di Milwaukee che ha fatto appello al suo talento per tenere lontane le grinfie di una cordata di imprenditori che voleva portare altrove i Bucks.
Il nuovo palazzetto si farà, come richiede la lega. Lui sembra avere le spalle abbastanza forti, e la necessaria dose di spensieratezza, per sopportare tutte queste responsabilità.
Ha la rara capacità di divertirsi, mentre migliora di giorno in giorno e affronta i suoi idoli da ragazzino con una cattiveria agonistica senza pari. “Sono solo maglie con un nome scritto sopra, quando scendono in campo” ha dichiarato. Mentre sorrideva.
Vanno bene le storie e tutto il resto, ma quel che ci interessa è che Giannis gioca maledettamente bene a pallacanestro e ha tutte le intenzioni di diventare un grande di questo giochino. Quella attuale è una breakout season a tutti gli effetti, bastano le statistiche in netta crescita a candidarlo a Most Improved Player.
La squadra, tuttavia, sembra aver perso la quadratura del cerchio che aveva portato le truppe di coach Kidd a un’inaspettata qualificazione ai playoff lo scorso anno.
I Bucks viaggiano a velocità di crociera tra i bassifondi della Eastern Conference. Gli innesti di Michael Carter-Williams e soprattutto Greg Monroe, uno tra i free agent più ambiti dell’estate, non hanno dato i risultati sperati. Anzi, sembrano aver insinuato sabbia in ingranaggi che funzionavano correttamente.
Il buon Jason le ha provate tutte per ritrovare l’identità perduta e a inizio febbraio, a corto di soluzioni, è tornato a un’idea che cullava sin dal suo arrivo a Milwaukee; schierare Giannis da playmaker, probabilmente il più alto e lungo della storia. E Kidd, di quel ruolo, se ne intende.
I Bucks non avevano nulla da perdere e la stagione improvvisamente svolta. Troppo tardi per raggranellare le vittorie necessarie a salvare un’annata deludente, ma il coach già gongola pensando al prossimo ottobre. L’esperimento è riuscito e le statistiche di Giannis s’impennano. Ci sono, tanto per gradire, anche quattro triple doppie.
Con la palla in mano e l’attacco che parte da lui il greco è improvvisamente nella sua comfort zone. Facile prevedere che sarebbe diventato un difensore d’élite, con quella struttura longilinea che continuava a riempirsi di muscoli e la velocità di piedi per stare dietro a chiunque.
A vederlo come terza opzione nell’anno da rookie, a prendersi improbabili iniziative sugli scarichi altrui o tiri da 3 che non erano nel suo arsenale, il suo talento offensivo non appariva altrettanto cristallino. Ma non era quello il suo ruolo.
Giannis è una guardia, lo sostiene anche lui stesso, con il non marginale difetto di avere poca confidenza col tiro. Il rilascio della palla non è agevole, con quelle mani da supereroe che si ritrova – 15 pollici dicono i più informati, anche se nessuno si è finora premurato di misurarle col righello, forse per timore di complessi d’inferiorità.
La tecnica però è solida, la parabola alta, il ritmo fluido. Il ragazzo si farà, come cantava De Gregori, anche se non sarà mai un tiratore naturale. In fondo ha solo 21 anni, ha cominciato a giocare agonisticamente da poco, e crea già considerevoli grattacapi alle difese avversarie pur non rappresentando una minaccia dal perimetro. È questo il dettaglio più spaventoso.
Con Antetokounmpo in posizione di point guard, point forward o come preferite chiamarla, i Bucks giocano meglio, balza subito all’occhio.
Nel video Giannis recupera palla sotto canestro, guida la transizione, batte l’uomo sul tempo e serve Monroe per un comodo appoggio. Kris Middleton, un altro che dà del tu al pallone, lo supporta nei compiti di guardia e il campo appare più grande.
C’è una batteria di tiratori efficienti pronta a raccogliere i suoi scarichi: Bayless e OJ Mayo sono lì esclusivamente per quello.
Jabari Parker può così togliersi da una posizione dove non era pericoloso, quella di spot up shooter, ed è messo nelle condizioni di fare ciò che gli riesce meglio; tagliare a canestro, specialmente sulla linea di fondo.
Il talento del prodotto di Duke, tenuto in animazione sospesa per più di un anno, è finalmente esploso e l’intesa col greco è sopraffina. Giannis serve i compagni con precisione e generosità, senza cercare a tutti i costi la giocata appariscente. Ne beneficiano persino i mestieranti come Miles Plumlee, rispolverato dalla panchina per sopperire alle carenze difensive di Greg Monroe e tornato somigliante a un giocatore di pallacanestro. È anche da questo che si vede chi, da playmaker, ci nasce.
Il giochino funziona anche in difesa. L’attacco avversario si ritrova a gestire degli intricati cross-matchup mentre con l’abuso di pick and roll dell’NBA odierna Antetokounmpo può agevolmente cambiare su chiunque. Si ritrova spesso nei pressi del canestro, posizione dove eccelle per contestare i tiri e catturare rimbalzi, e da lì riparte direttamente con la palla in mano. Quattro falcate ed è già dall’altra parte; un lusso che poche squadre possono concedersi.
Da quando è stato spostato a guardia Giannis ha eliminato quasi del tutto il tiro da 3, concentrandosi nell’attaccare il ferro. Lo fa con particolare aggressività, sfruttando un repertorio sempre più raffinato di finte, virate e cosiddetti euro-step (poco importa che quelli, in Europa, sarebbero passi). Porta a casa sette tiri liberi a partita. Così sopperisce, ben istruito da Kidd, alla scarsa pericolosità del perimetro, in attesa che le difese imparino a contenerlo e che il tiro si faccia più affidabile.
Al materializzarsi sui tabellini delle prime triple doppie i paragoni si sono sprecati. È troppo presto ma la mente umana è fatta così, ha bisogno di mettere le cose a confronto per misurarne il valore.
Oscar Robertson, si è detto. Magic Johnson. LeBron James. Proprio al nativo di Akron, Ohio, il nostro sembra assomigliare, per versatilità e qualità offensive.
I dubbi però non mancano, come è ovvio che sia quando si parla di un ventunenne che gioca in una squadra di basso profilo, quasi a digiuno di esperienza nel basket che conta, quello dei playoff. Il ruolo di facilitatore gli viene naturale ma un playmaker degno di questo nome deve possedere anche altre doti.
La leadership, l’intelligenza, una conoscenza maniacale della pallacanestro anche nei suoi aspetti teorici. La capacità, in poche parole, di fare la giocata giusta quando la palla pesa di più. Giannis di questi ostacoli, quelli che forgiano il carattere e l’esperienza di un giocatore, non ne ha mai incontrati sul parquet. Con quelli dell’asfalto invece, della vita reale, ha una certa familiarità.
In una delle sue prime partite in NBA, racconta, si fece mettere i piedi in testa da Mike Dunleavy. Non esattamente il primo nome che viene in mente pensando a un attaccante irresistibile, eppure non riusciva a stargli dietro. Non succederà una seconda volta, si disse.
Il giorno dopo era attaccato al video, intento a consultare spezzoni di partite dei Bulls alla ricerca dei punti deboli dell’avversario. Con tutto il rispetto per il buon Mike, mi ripeto: non esattamente la minaccia su cui si focalizza uno scouting.
In allenamento imitò le sue movenze, provò e riprovò i movimenti che avrebbe dovuto compiere per sbarrargli la strada. Difficile prevedere se lui e Jabari Parker diverranno veramente gli eroi che Milwaukee chiama a gran voce. Ad oggi sembra solo una questione di tempo, ma troppe sono le incognite.
Quel che è certo è che la pallacanestro ha donato a Giannis e alla sua famiglia una nuova vita e lui ha ogni intenzione di sdebitarsi. Sa perfettamente che ogni cosa ha un prezzo, piccolo o grande che sia, e perciò va rispettata.
Come la Playstation 4 che lo faceva sentire in colpa. Come il cibo avanzato, le scarpe gettate da Caron Butler, le Gucci della domenica. Come i souvenir che vendeva ai turisti sui marciapiede di Atene.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.
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