Dopo la dolorosa eliminazione dai Playoffs per mano dei Rockets, l’allenatore e GM dei Clippers, Doc Rivers, aveva approcciato il mercato aggressivamente, spedendo Spencer Hawes e Matt Barnes in direzione Charlotte Hornets prima ancora del Draft, ottenendo in cambio Lance Stephenson.
Per alcuni osservatori, si trattava della mossa disperata di una franchigia che non aveva spazio operativo per andare a caccia di free agent (come lo stesso Rivers aveva detto nelle interviste di fine stagione), e che, dietro a due dei primi dieci giocatori NBA (Chris Paul e Blake Griffin) e un grande difensore (DeAndre Jordan), non aveva un supporting cast di qualità.
A ben vedere però, la mossa di Doc (al netto dell’ovvia componente di rischio), era un upgrade che consentiva di rimediare ad alcuni errori commessi nelle due estati precedenti: Hawes, firmato un anno fa con la mid-level exception, non è mai entrato nelle rotazioni di Rivers, mentre Barnes non era di per sé un cattivo elemento, ma era troppo discontinuo al tiro per una formazione che aveva bisogno di migliori spaziature e che lo aveva preferito a Jared Dudley più che altro per motivi di stazza e atletismo.
Stephenson non è il giocatore ideale, perché, a sua volta, è un cattivo tiratore da fuori (l’ex Cincinnati viene da una stagione nella quale ha messo a referto un eFG% del 39.2), ma è un difensore di livello superiore, un buon rimbalzista e soprattutto, porta bene palla, tanto da essere stato per anni il playmaker sotto mentite spoglie degli Indiana Pacers.
I Clippers erano consci di non avere un secondo creatore di gioco oltre a Paul; avevano provato a colmare la lacuna con Austin Rivers, ma il figlio di Doc si è rivelato discontinuo al punto d’essere inaffidabile, mentre Griffin ha già troppe mansioni, senza dover essere chiamato anche a fare la “point forward”.
Stephenson tampona questo problema, e il reparto guardie dei Clippers è improvvisamente diventato vario, profondo e talentuoso: J.J. Redick e Jamal Crawford potranno concentrarsi sui propri specifici compiti, mentre Paul e Stephenson si occuperanno di portar palla e smistarla (il rischio, naturalmente, è che due personalità così spigolose finiscano con il confliggere).
L’orizzonte della free agency però, addensava nubi minacciose; Jordan era uno dei free agent più concupiti dell’estate, e, per quanto Rivers si dicesse convinto della permanenza in California del centro texano, era il primo a sapere che i rapporti complicati tra DJ e Chris Paul lasciavano aperto uno spiraglio alle tante formazioni decise ad approfittarne.
I più lesti di tutti sono stati i Dallas Mavericks, che, salutato senza troppi rimpianti Rajon Rondo, e rimasti nelle retrovie dalla corsa a LaMarcus Aldridge, si sono buttati su DeAndre Jordan, facendo leva sulla sua voglia di cambiare aria e provare nuove avventure lontano dal clima da caserma imposto da Chris Paul.
Le squadre NBA hanno licenza di parlare coi giocatori dal primo luglio, ma solo dal nove possono effettivamente firmare i contratti; il periodo che intercorre è indicato come “moratorium”, durante il quale si parla dei termini contrattuali, ma non si può firmare nulla, e le squadre non possono fare dichiarazioni (ai giocatori invece è concesso).
La prassi è che durante la prima settimana di luglio i giocatori annuncino la loro decisione, e solo in seguito (conclusa la moratoria), mettano il loro nome in calce ai contratti: Mark Cuban e il suo GM Donnie Nelson erano riusciti nel loro intento (anche a costo di una multa salata per aver annunciato l’accordo anzitempo), strappando l’agognato “sì” del rim-protector che sognavano.
Tyson Chandler si era accasato in direzione Phoenix Suns, rendendo ancor più imprescindibile l’approdo a Jordan (o a Hibbert, che era il piano B), mentre aggiungevano l’eccellente guardia Wesley Matthew (al posto di Monta Ellis, diretto ai Pacers), e si stavano interessando a Jeremy Lin, in uscita dai Lakers, per dotare coach Rick Carlisle di un playmaker di buon livello. Per farla breve, Dallas stava elevando il proprio (già ragguardevole) standard qualitativo.
I grandi sconfitti della free-agency parevano a questo punto i Los Angeles Clippers, la cui front-line si era dimezzata dalla sera alla mattina; certo, nel frattempo era arrivata la firma di Paul Pierce (pretoriano di Doc Rivers ai tempi dei Boston Celtics), ma senza la pietra angolare difensiva della franchigia, qualsiasi addizione di contorno aveva più che altro il sapore della beffa.
Quello che dall’esterno però non sapevamo, era che DeAndre Jordan stava rimuginando sulla propria scelta, e iniziava a sospettare d’aver fatto una fesseria; in fondo, Los Angeles era stata casa sua per anni, e l’adorato Doc Rivers era l’allenatore grazie al quale DJ era diventato uno dei rim-protector più rispettati dell’intera NBA.
Anche Paul, in fin dei conti, non era così male: certo, ogni volta che DeAndre ne combinava una delle sue, partiva la sua strigliata (in stile Sergente Hartman), ma CP3 è pur sempre il miglior playmaker della propria generazione, e un big man senza grandi doti di post basso è legato mani e piedi alla qualità dei passaggi delle proprie guardie. Un conto, è Paul, un altro, con tutto il rispetto, è Jeremy Lin (che intanto, ha trovato l’accordo con gli Hornets).
Ormai convintosi di non voler più andare in Texas, lunedì DeAndre ha chiamato Rivers e Griffin per confessare i propri dubbi, spingendoli a tornare alla carica assieme al proprietario, Steve Ballmer, a Chris Paul, Paul Pierce e anche J.J. Redick; i Mavs, presi alla sprovvista, hanno provato a contattarlo, ma, pare che DJ non abbia risposto alle chiamate di Mark Cuban e di Chandler Parsons.
Così, è scattata una marcia indietro clamorosa e inusitata, che ha lasciato i Mavs con un pugno di mosche in mano (perché nel frattempo il loro piano B ha preso la strada dei Lakers), e che ha ricollocato i Clippers nell’empireo della Western Conference che conta, forti della conferma di DeAndre per altri 4 anni, (e non cinque) a quasi 88 milioni di dollari.
Che Jordan avesse dei dubbi, è testimoniato anche dal fatto che l’account Twitter (che ormai, è la voce ufficiale dei giocatori) di DeAndre fosse rimasto silente; nessuno ci aveva fatto caso, tranne l’ottima reporter Ramona Shelburne: in fondo, da che mondo e mondo, la stretta di mano al termine di un incontro è sempre stata il virtuale equivalente di un contratto, come tra gentiluomini.
Tra un tweet e l’alto, il panorama di questa free-agency è stato stravolto, e i Mavericks ne escono con le ossa rotte; convinti d’aver messo le mani su Jordan, hanno smesso di trattare ogni altro free-agent, e hanno ragionato in funzione della sua presenza.
Ora si ritrovano con un roster disfunzionale, senza la possibilità di rimediare. La musica si è fermata, e i Mavs sono rimasti senza sedia.
Felicissimi i Clippers, che riprendono il discorso da dove l’avevano interrotto dopo l’eliminazione per mano dei Rockets, aggiungendo finalmente una rotazione in ala piccola (con Paul Pierce e Wesley Johnson, che arriva dopo due anni ai cugini Lakers), e con nuova linfa nella posizione di guardia.
La front-line resta corta, per competere ai massimi livelli, e la chimica di squadra è tutta da registrare, ma il roster 2015-16 dei “velieri” si annuncia più qualitativo rispetto alle edizioni precedenti.
Ora molti auspicano una revisione del meccanismo della free agency, ma la verità è che, come ha sottolineato il commentatore David Aldridge, durante la moratoria si possono discutere i termini, ma non si possono stipulare accordi, nemmeno orali. Jordan è stato scorretto e infantile nel suo procedere, ma è anche vero che non ha infranto nessuna regola formale.
Certo, alla luce di questa vicenda, fa sorridere la pretesa dei giocatori d’essere considerati freddi businessmen; nel mondo reale, certi loro atteggiamenti (non solo di Jordan, sia chiaro) sarebbero inaccettabili e risibili, oltre che di pessimo gusto, ma tant’è.
Si può solo sperare che ora Dallas accetti signorilmente la sconfitta, perché se dovesse chiedere un arbitrato, o tentare di firmare giocatori che hanno già un accordo con altre squadre, questo genererebbe un effetto domino che Adam Silver non potrebbe ignorare, costringendo la NBA a un pesante intervento sul meccanismo della free agency.
Intanto Wesley Matthews è intenzionato a mantenere la parola data (almeno lui!) e Charlie Villanueva rimarrà, ma Cuban aveva detto che se i Mavs avessero fallito l’assalto a Jordan, avrebbero tankato, il che vorrebbe dire mettere Chandler Parsons sul mercato, mentre Dirk e lo stesso Carlisle potrebbero voler rivedere la propria posizione.
Finché non si troverà la scatola nera di questa faccenda, non sapremo se sia colpa della superficialità di Dallas, o dell’eventuale scorrettezza di Rivers; l’unico fatto acclarato è che la Western Conference ha quasi certamente perso per strada una propria contender, se mai servisse l’ennesima dimostrazione che puntare tutto sulle volubili lune dei free agent non è la via maestra per il successo.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Articolo che riassume bene la situazione: Dallas ne esce sconfitta, i Clippers tornano ad essere da titolo(o almeno da finale a Ovest)e Jordan dimostra di essere quello che è: un bambinone la cui parola non vale niente. Certo aveva tutto il diritto di fare come ha fatto e probabilmente ha fatto bene, ma quando dimostri di non essere affidabile, non lo sarai mai e se i Clips vinceranno qualcosa non lo faranno certo grazie a lui. Cioè, non voglio dire che DJ sia un pacco, anzi è stoppatore e rimbalzista enorme e tutte le squadre lo vorrebbero a roster ma ha limiti tecnici enormi e credo che non sia giocatore sul quale puntare, può dare il suo utile contributo, ma nulla di più: LA è nelle mani di Paul e BG non certo di DJ. E Dallas? beh, a mio parere la perdita di DJ non è così drammatica in senso assoluto per i motivi sopra, ma nell’immediato sì. Senza centro, senza rimbalzisti puri credo abbia difficoltà e si trovi al bivio: mollare tutto e ricostruire o provarci, magari raccattando degli scarti e puntare ai p.o ma con una facile eliminazione al primo turno. A logica io penserei a ricostruire, fare un campionato modesto,farsi spazio salariale, un occhio alla lotteria e lasciare che si scannino fra loro le fortezze dell’Ovest, tanto non ci sono grosse possibilità di fare belle cose. Ciò però implicherebbe la perdita di Dirk quasi sicura che chiederebbe immagino di essere ceduto a una contender. Da tifoso dei Mavs questa possibilità mi stringe il cuore perché voglio pensare a Dirk con una sola maglia fino alla fine, perché lo sport è anche romanticheria varia e le bandiere sono sempre le bandiere anche in mondo fatto di piccoli grossi uomini senza una vera parola come DeAndre Jordan.
Se Dirk se ne andasse, mi dispiacerebbe molto, come mi è spiace vedere Pierce con una maglia diversa da quella dei Celtics (o Olajuwon in maglia Raptors, o Ewing con quella dei Sonics). Anche con DJ i Mavs non sarebbero stati, mi pare, favoriti per il titolo, però avrebbe aiutato una ricostruzione più veloce. La cosa grave non è che non sia arrivato Jordan, ma che si sia creata una situazione che ha impedito di firmare altri giocatori.
Non apprezzo molto il tanking, ma per una sola stagione (massimo due) può aver senso (se si va oltre, vuol dire che la dirigenza non sa scegliere al draft e sul mercato). Spero che, nonostante tutto, Dirk resti a Dallas, da uomo-franchigia fino in fondo.
Sì, come scrivevo Jordan non è quel giocatore sul quale costruire attorno, ma per difendere il canestro e tirar giù rimbalzi ha pochi rivali in Lega e quindi era assai utile. Concordo sul tanking, dopo due stagioni di fila nella NBA, si palesa l’incompetenza della franchigia, ma Dallas negli ultimi anni, pur scegliendo sempre molto in basso, ha sempre preso dei giocatori che seppur di seconda fascia hanno fatto o stanno facendo carriera NBA.
Ad ogni modo con l’arrivo(notizia di oggi) di D.Williams mi pare che Cuban abbia mostrato che non vuole arrendersi e quindi immagino che Dirk rimanga ancora.
(su DW: mah, penso che se fosse arrivato nel 2012 avrebbe potuto essere di aiuto, adesso mi pare un giocatore un po’ involuto, speriamo che l’aria di un posto nuovo e stimoli nuovi lo facciano riprendere…!)
Io credo che D Willaims sino al 2012 fosse uno dei migliori 5 playmakers della lega, ma credo che la sua involuzione sia sotto gli occhi di tutti.
Io non credo che un arbitrato abbia molte possibilità di successo, anche perchè non credo che gli accordi verbali siamo contrattualmente vincolanti.