Se ce la fai nel South Side di Chicago, puoi farcela ovunque.
Beh, Frank Sinatra per la verità parlava di New York, ma il discorso è simile: nella Grande Mela la difficoltà consiste nell’enorme competizione per “arrivare”, mentre nel South Side farcela vuol semplicemente dire evitare di finire in mezzo alla guerra tra bande della droga che prosegue imperterrita da trent’anni, con buona pace dei sindaci che si sono succeduti sulla poltrona della splendida Chicago City Hall.
Nell’ottocento il sud di Chicago attirò gli immigrati in cerca di lavoro nelle vicine industrie, continuando in seguito a crescere con l’arrivo di polacchi, italiani, irlandesi e lituani fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Il South Side è un quartiere residenziale di colore sin dagli anni immediatamente successivi alla Guerra Civile, quando la popolazione nera passò da 4.000 unità a 15.000 nello spazio di vent’anni (anche oggi, oltre il 90% della popolazione è di colore), degenerato in terra di spaccio durante gli anni settanta, quando arrivarono le bande, come i Vice Lords o i Latin Kings.
Oggi è in corso, qui come altrove, quel processo che va sotto il nome di gentrification (che poi non vuol dire altro che allontanare i residenti, demolire le case e ricostruire quartieri per persone più abbienti) e di recupero di una zona caduta in disgrazia, ma South Chicago è ancora un’area poco raccomandabile, se si escludono Woodlawn, Bronzeville, Bridgeport e in parte, Washington Park.
Da South Chicago arrivano Barack Obama e Jessie Jackson, ma anche Nick Anderson e Derrick Rose, prodotti di quella Simeon High School nella quale ha militato pure il nostro Jabari Parker.
Dopo aver preso il posto di Rose nell’high school con più storia cestistica di Chicago, andando a vincere quattro titoli statali, Jabari è assurto al ruolo di prospetto numero uno della nazione, ma con l’emergere di Wiggins ed Embiid (con il quale condivide l’agente, quell’Arn Tellem che assistette anche Kobe Bryant), non è, con ogni probabilità, destinato ad essere scelto con la prima chiamata assoluta, e forse nemmeno con la seconda.
I principali pregi di Parker (tecnicamente rifinito, capace di incidere pur senza disporre di un atletismo dirompente, punto di riferimento offensivo anche ad alto livello) si sono trasformati in un boomerang che l’ha reso meno appetibile di Andrew Wiggins e Joel Embiid, il duo di Kansas che ha lasciato intravedere un enorme potenziale più che solide certezze.
Nell’anno trascorso a Duke, Parker ha consolidato l’impressione d’essere un realizzatore di razza, ma proprio perché è un giocatore dai contorni tecnici più definiti, molti scout lo reputano dotato di minori margini di crescita rispetto ai due Jayhawks.
Posto che non sempre il potenziale si concretizza, oggi Parker è un giocatore molto più continuo e affidabile di Embiid e Wiggins, ma, proprio per questo motivo, ottiene meno considerazione, perché si pensa che non abbia margini di crescita.
In realtà, molti di questi dubbi hanno un fondamento più speculativo che reale; Parker è più giovane di un mese rispetto a Wiggins, anche se il suo modo di stare in campo lo fa sembrare più stagionato.
È chiaro che il potenziale abbozzato lascia sempre un margine di indefinitezza con il quale si può sognare ogni genere di meraviglia, ma non è affatto detto che sia più difficile che Jabari cresca difensivamente (o a livello fisico) che Wiggins acquisisca continuità o che Embiid domini i verniciati NBA.
Cresciuto, proprio come Wiggins, in un ambiente familiare solido e dotato di fermi e sani principi, Parker è lontanissimo dall’essere, sia per carattere che per modo di giocare, il classico fenomeno uscito dal ghetto; figlio di quel Sonny Parker che si occupa da decenni di centri per la gioventù in aree metropolitane disagiate (oltre ad aver giocato per sei anni in NBA), è cresciuto giocando sul campo della chiesa mormone di Hyde Park, piuttosto che nei playground di South Chicago, magari più competitivi, ma di certo forieri di cattive frequentazioni.
Già, chiesa mormone, dicevamo, perché la genitrice, Folola Finau-Parker, nativa delle isole Tonga, cresciuta nello Utah, patria della sua fede religiosa.
Sonny e Lola si incontrarono quando lui giocava per Golden State e lei frequentava Brigham Young, e si sposarono quando Sonny lasciò il professionismo, stabilendosi a Chicago, dove la coppia ha dato alla luce a ben sette figli.
Come tutti i suoi fratelli e sorelle, Jabari è membro attivo della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, ed forse l’unico prospetto da lottery nella storia della NBA a non aver snobbato gli Utah Jazz (che però quasi certamente non lo troveranno ancora sul tabellone quando potranno chiamare). Di sicuro, non ci sono molti altri All-American ad aver amministrato battesimi ed eucarestie (per i mormoni è tradizione diventare preti a 16 anni)!
Diventato un nome noto nel basket dell’Illinois, Jabari fece ritorno nel quartiere natio solo per frequentare Simeon High School, una specie d’istituzione del basket locale, forgiata sull’immagine di Ben Wilson, il primo grande prospetto a essere transitato tra quelle mura.
Wilson, che fu ucciso prima ancora di diplomarsi, aveva reclutato Nick Anderson, che avrebbe conosciuto lunghi e prosperi anni di NBA; da allora, Simeon ha sfornato talenti con continuità, da Bobby Simmons a Deon Thomas, passano ovviamente per il più forte di tutti, Derrick Rose.
Dopo un quadriennio chiuso in crescendo (inclusa la copertina di Sports Illustrated, con tanto di paragone con LeBron James), Parker fu reclutato da tutti i college più importanti; North Carolina, Kansas, Duke, Kentucky tentarono di reclutarlo, e a spuntarla furono i Blue Devils di Mike Krzyzewski, che gli affidarono la maglia numero uno, quella vestita da Kyrie Irving giusto un anno prima.
Jabari ha mantenuto le premesse, chiudendo le sue 35 partite ufficiali con Duke segnando 19.1 punti di media, con il 47% dal campo, conditi con 8.7 rimbalzi (nelle prime sette gare, tirò con il 60% dal campo, per 23 punti di media), pregando immancabilmente prima di ogni partita e andando a stringere la mano agli avversari subito dopo.
Il suo allenatore ai tempi di Simeon, Robert Smith, disse che tutta quella deferenza e umiltà gli erano parsi una facciata, ma dopo averlo visto all’opera per anni, non potè che concludere che “il ragazzo è speciale”. Per lui, niente tatuaggi, pantaloni pericolosamente a vita bassa o posse al seguito.
Firmato un contratto con Rich Paul (che è l’agente di LeBron), Parker ha chiuso dopo un solo anno, come largamente atteso, la sua esperienza collegiale, dichiarandosi per un draft del quale, se non sarà la stella indiscussa, è sicuramente uno dei nomi più appetibili.
Sviluppatosi in un’ala realizzatrice come se ne vedono poche, Jabari è stato paragonato a Carmelo Anthony o a Paul Pierce, mentre qualcuno (Dime Magazine) si è avventurato in un “Grant Hill con il tiro” che forse è un po’ esagerato, se parliamo dell’Hill pre-infortunio.
I detrattori hanno sottolineato che Parker in realtà è molto meno pronto fisicamente di quanto non fosse LeBron James (che non è esattamente un atleta nella media, peraltro) alla stessa età, e, anche in questi giorni, molti scout NBA hanno ribadito la cattiva impressione fatta dalla scarsa definizione della sua massa muscolare, anche se Parker si è anche rivolto al celeberrimo preparatore Tim Grover (che vive proprio a Chicago) nel tentativo di migliorarsi fisicamente.
Figlio, come Wiggins, di un veterano NBA, Parker ha però sviluppato molto di più e meglio del suo rivale canadese le proprie doti tecniche, sopperendo ad un atletismo non debordante con una sorprendente conoscenza dei fondamentali cestistici.
Suo padre, Sonny, non lo ha mai allenato, troppo occupato dal proprio lavoro nella comunità, e quando è andato a vederlo giocare, è sempre stato parco di consigli e incoraggiamenti.
Di lui, Jabari disse a Sports Illustrated che “è un tipo modesto, non gli piace vantarsi di quel che ha fatto. Mi ha insegnato tutto quel che so sulla pallacanestro, ma non mi spinge come fanno altri padri”.
Sua madre Lola, invece, l’ha preparato all’impatto mediatico del suo ruolo, con tanto di finte interviste per insegnargli come relazionarsi con i giornalisti (anche se ha incautamente sparato a zero sui compagni di Carmelo Anthony, ed è il genere di frase che la stampa è abilissima nell’usare per fomentare polemiche).
Jabari è prima di tutto un appassionato studioso del gioco, piuttosto che uno di quei forzati costretti da un padre-padrone a sorbirsi ore e ore di allenamenti punitivi nel tentativo di “costruire un campione”.
La sua passione traspira dal trasporto con il quale parla di vecchie partite e vecchi giocatori, da Pistol Pete Maravich a Walt Frazier, e tutto questo studio si specchia alla perfezione in un gioco old school che avrebbe mandato giù di testa gli scout, se solo Parker fosse arrivato in NBA quindici o vent’anni fa.
Oggi si privilegiano letture e atletismo rispetto alla capacità di prendersi un tiro dal nulla, sempre e comunque, perché il gioco non è più incentrato sull’isolamento delle stelle, e in questo senso, Parker avrà molto dal lavorare in NBA se vorrà avere un impatto più profondo di quello statistico.
In questo senso, il paragone che proponiamo è con Kobe, al quale somiglia poco (sia perché è un giocatore strutturalmente molto diverso, sia per il ruolo e l’aggressività) in campo ma con il quale condivide l’attenzione per i campioni del passato e la capacità d’essere un umile studente del gioco, sempre alla ricerca di un nuovo movimento da incamerare nel proprio bagaglio tecnico.
Il suo giocatore preferito è Oscar Robertson, classica scelta da intenditori amanti del vintage, del quale ammira soprattutto la capacità di fare la partita su due lati del campo. Se potessimo dargli un consiglio, gli suggeriremmo di badare in particolar modo alla capacità di The Big O d’essere un giocatore coinvolgente, piuttosto che una stella forgiata attorno all’uno-contro-uno.
Bryant si è alienato gran parte della stampa proprio per aver tentato di riproporre il modello stile anni ’90 emblematizzato da Michael Jordan, Parker dovrà stare attento a non fare lo stesso.
Su di lui c’è da tempo l’interesse e l’attenzione dei Milwaukee Bucks, che sceglieranno con la selezione numero due e quindi, visto che i due prospetti più quotati sono i due fenomeni di Kansas, potranno, se lo vorranno, scegliere il mormone di Chicago, che si troverebbe così a vestire la maglia della franchigia che fu del leggendario Oscar.
Lungi dall’essere timido, Parker sarà fin da subito il fulcro dell’attacco della sua squadra, sia essa Milwaukee, Philadelphia (o addirittura Orlando, dovesse essergli preferito anche Exum).
Jabari porta a spasso un bagaglio tecnico già sontuoso per un’ala della sua taglia fisica. Posto che alla bisogna potrebbe anche essere adattato come stretch four, Parker passa benissimo la palla (anche se ha collezionato meno di due assist di media nel corso della sua esperienza in NCAA) e palleggia con competenza di destro e sinistro e sa costruirsi con continuità e varietà di soluzioni il tiro, anche partendo da fermo; si va dai tiri da tre presi con step-back fino ad un notevole gioco dalla media distanza.
Possiamo solo augurargli che, qualunque squadra lo scelta, lo innesti da subito in un impianto di gioco che lo coinvolga in un sistema, anziché delegargli responsabilità che rischierebbero di creargli la nomea di mangiapalloni.
Le aree critiche dello sviluppo tecnico di Jabari sono due in particolare: difesa e selezione di tiro. Parker soffre molto i giocatori più rapidi, e gli attacchi NBA non ci metteranno molto a sommergerlo di pick and roll 1-3 come quelli che stiamo vedendo tra Lebron e Chalmers, in questi giorni di Finali NBA.
Inoltre (ma questo è meno preoccupante, perché un buon coaching staff può lavorarci sopra), la sua posizione difensiva è così poco qualitativa che anche i pariruolo più rapidi sono in grado di batterlo con continuità dal palleggio.
A una stella non si richiede la lock-down-defence (posto che se c’è anche quello, non guasta) ma Jabari può e deve fare meglio, perché un giocatore che sta in campo 30 minuti di media non deve essere un anello debole della catena difensiva.
L’altro aspetto sul quale Parker dovrà lavorare molto riguarda la selezione dei tiri. La sua abilità nel costruirsi tiri lo spinge spesso a ritenere di poter trarre conclusioni ad alta percentuale da situazioni nelle quali giocatori meno raffinati si limiterebbero a scaricare verso il compagno più libero.
Come detto, se l’arte dell’uno-contro-uno faceva la fortuna degli esterni del decennio passato, oggi è sempre meno importante sapersi costruire tiri impossibili di quanto non sia fondamentale saper leggere le difese e prendersi quello che queste concedono, come fa (quasi) sempre King James.
I margini di miglioramento di Parker quindi esistono eccome, e renderebbero Parker un’arma offensiva che poche squadre possono vantare.
Durante i suoi primi anni NBA Jabari dovrà per forza di cose lavorare tantissimo sull’attenzione alle spaziature e al piazzamento delle difese (mentre chi sceglierà Embiid e soprattutto Wiggins, dovrà lavorare su molte più cose), oltre che migliorare nella marcatura single-coverage.
La sua disponibilità ad allenarsi, la sua curiosità verso il gioco e la generale tendenza a rispettare l’autorità ne fanno un giocatore di sicuro upside e capacità d’adattamento, dovesse poi trovare sulla sua strada un coaching staff capace di isolare i suoi difetti e lavorarci, Jabari Parker potrebbe trasformarsi nella vera gemma del draft 2014.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
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