Genio e sregolatezza, commenterebbero in molti pensando alla vita di Jerry Buss. Genio perché lo era veramente.
Laureato in fisica e chimica, tanto da diventare impiegato governativo per un certo periodo di tempo e poi insegnante universitario, nella sua seconda alma mater, USC.
Sì perché la prima fu l’Università del Wyoming in cui uscì con un dottorato breve, quella che oggi noi chiameremmo “laurea breve”. Ma allora come ha fatto uno scienziato come lui ad intrufolarsi nel mondo dello sport e prima ancora in quello dell’immobiliare?
Beh perché è proprio questo in cui sta il genio, il vero fiuto di una persona intelligente, investire i soldi nel migliore dei modi e trarne profitto per lunghi anni.
Jerry è stato il classico self made man, l’uomo che si è fatto da solo, evitando metodi poco puliti che la società americana, ma non solo, è lecita immaginarsi quando una persona parte dal nulla e ne ricava una miniera d’oro.
Buss non aveva scoperto un pozzo petrolifero, non veniva da una famiglia benestante, ma è stato educato con dei valori che sono stati il monito di tutta la sua carriera imprenditoriale e di owner dei Lakers.
Tutto parte un giorno del 1979, in cui Jerry apre la sua personale ditta di investimenti insieme ad un socio di origini italiane. Certo, i soldi li aveva già tirati su negli anni precedenti, tanto da potersi permettere pure un divorzio e il mantenimento di quattro figli, avuti con la signora JoAnn Mueller.
Ma il suo più grande investimento, in quell’anno magico, è l’acquisizione dei Lakers, dei Kings di hockey (subito venduti a prezzo più alto) e del Forum di Inglewood, a cui da un nuovo nome, trovando un accordo milionario con la Great Western Bank che rimarrà fedele alla famiglia Buss per ben 15 anni.
Ai disastrati Lakers di quel periodo (ultimo titolo arrivato nel 1972), serviva una persona di spicco, capace di riportare i purple&gold ai fasti di qualche anno prima. Un uomo che ci tenesse alla città e alla storia della squadra e Buss è la persona giusta al momento giusto.
In squadra ci sono già giocatori del calibro di Michael Cooper, Norm Nixon, Jamaal Wilkes e soprattutto Kareem Abdul-Jabbar, arrivato dai Bucks nel 1975.
Il primo colpo di classe lo fa promuovendo Jerry West da coach a general manager che nel draft del 1979 selezionerà nientepopodimeno che Earvin “Magic” Johnson. Jack McKinney viene nominato head coach, partendo con un record di 10-4 in stagione regolare, per poi avere un brutto incidente in bicicletta che lo costringerà ad abdicare per il suo assistente, un certo Paul Westhead che condurrà i Lakers al titolo in una finale che rimarrà storica più che altro per la prestazione di Magic Johnson in gara-6, capace di giocare, contro dei Sixers spolti, nel ruolo di centro al posto dell’infortunato spilungone occhialuto con il numero 33.
E’ subito un trionfo e sui giornali, ma anche tra la gente di Los Angeles, si parla dell’uomo dal ciuffo brizzolato, apparso dal nulla e già vincitore di un titolo al suo primo anno.
Ma cosa sono veramente i Lakers? Una squadra fondamentalmente nuova, con idee nuove e un nucleo di giocatori pronto a regalare parecchie soddisfazioni a coloro che li supporteranno.
Ma l’anno seguente, la grande “armata” giallo-viola si schianta contro il muro eretto da Moses Malone e dai suoi Rockets, poi perdenti in finale contro i Celtics. Jerry Buss non ci sta e dopo aver assaporato il gusto della vittoria, concede un’ultima chance a coach Westhead che puntualmente venne licenziato dopo poche partite della stagione 1981-82.
Come successo in precedenza, la panchina viene affidata ad un assistente, come una vera e propria successione al trono. Ed è qui che spunta il giovane brillantinato Pat Riley, alla sua prima esperienza come allenatore. La scelta tocca proprio a Buss che vede in lui un altro se stesso.
Affascinante, intelligente, pieno di carisma e prossimo al successo. E così è.
A dire la verità, inizialmente pensa a Jerry West, che sarebbe quindi tornato al suo ruolo di partenza, ma il GM declina gentilmente l’offerta. Riley insegna un nuovo modo di giocare, basato sulle scattanti ripartenze e sulla fantasia e la classe del suo play titolare, Magic Johnson.
Ancora una volta, Jerry ci vede giusto a scegliere il trentaseienne nativo di Linton, New York. I tifosi gremiscono il Forum con più frequenza rispetto al passato e anche le star di Hollywood iniziano a fare capolino alle partite di basket. Così, Buss, si inventa un’altra trovata. Aumentare il prezzo dei biglietti delle prime file, ormai puntualmente destinati ai VIP della Los Angeles che conta.
Nel 1982, i Lakers vincono ancora il titolo, e anche questa volta contro i Sixers. L’anno dopo, Julius Erving e compagni, si prendono la rivincita addirittura spazzando via i Lakers con un secco 4-0, ma quello che conta per Jerry è di aver riportato la squadra alla gloria, una gloria che, secondo molti, non ha mai avuto prima.
La terza finale arriva nel 1984, con la sconfitta per mano dei Boston Celtics, in un anno che segnerà il nuovo inizio di una rivalità dal sapore storico. Nel 1985 giunge l’attesa rivincita, in sei partite, ma l’anno seguente saranno costretti a cedere il posto in finale ai Rockets.
Il riscatto immediato giunse nel 1987 con la squadra che ancora oggi molti definiscono spaventosa e tra le migliori di sempre. Oltre ai soliti noti, Magic e Kareem, Jerry Buss fu in grado di portare in giallo-viola anche giocatori del calibro di A.C. Green, Kurt Rambis, Byron Scott e James Worthy che conducono la franchigia ad un record di 65-17 e poi all’undicesimo titolo, sconfiggendo i Celtics in sei gare emozionanti.
Ma ancora più emozionanti sono le Finals del 1988, contro i mitici “Bad Boys” dei Detroit Pistons, che fanno sudare ad Abdul-Jabbar e compagni le fatidiche sette camicie, riuscendo, infine, a portare a casa l’ennesimo trionfo.
Con il ritiro di, al secolo, Lew Alcindor nel 1989, e la finale persa proprio contro i Pistons, si chiudono definitivamente i gloriosi anni ’80 dei Lakers, targati non solo Pat Riley e Showtime, ma anche e soprattutto Jerry Buss. Il suo bilancio in dieci anni di poltrona negli uffici di El Segundo, parla di ben cinque titoli in bacheca su otto finali disputate e altri due figli sul groppone, nati dall’unione con la sua compagna, Karen Demel.
La storia degli anni ’90, però, non vede l’ormai sessantenne Jerry sorridere come avrebbe voluto. Nell’estate del 1991, subito dopo aver perso le Finals contro i Bulls di Jordan, Magic Johnson decide di ritirarsi per combattere l’HIV. E’ un momento doloroso per Buss e per tutta la “famiglia Lakers”.
“Magic fu come un figlio per me. Arrivò quando presi in mano i Lakers, nel 1979, e da lì non ci separammo più, fino a quando non mi disse della sua malattia. Piansi per giorni, non perché non lo avrei più avuto in squadra, ma perché temevo di perderlo per sempre” dichiarò in seguito l’owner dei giallo-viola. Jerry era così, come un diamante: difficile da scalfire, ma facile da spezzare.
Fortunatamente, Magic guarisce, tanto da allenare i Lakers per sedici partite nella stagione 1993-94 e tornare brevemente in campo nel 1996, prima di ritirarsi definitivamente. Buss, però, non si perde d’animo e delega l’ormai storico GM Jerry West a costruire una squadra da titolo. Così, mentre l’altro Jerry si mette al lavoro, il nostro protagonista decide di scendere ancora in campo, mettendosi in gioco nella creazione della WNBA, la lega femminile di basket professionistico.
“Non ho mai capito perché le donne, quando ero al liceo e all’università, non potessero giocare a basket. Ora, anche se con un po’ di ritardo, è arrivato il loro momento.”
Nascono, così, le Los Angeles Sparks, di cui Jerry diventerà ovviamente il proprietario e con cui vincerà due titoli, nel 2001 e nel 2002.
Intanto i Lakers si assicurano i servigi di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, capaci di formare una delle coppie più esplosive nella storia della lega e per esplosivo intendiamo in tutti i sensi. Il problema, però, rimase il coach.
Dopo Pat Riley, Buss non riesce più a trovare un sostituto valido. Mike Dunleavy e Del Harris non si avvicinano nemmeno lontanamente alle ideologie del proprietario, tanto da venire ben presto sollevati dall’incarico. Dopo essersi guardato un po’ in giro, Jerry trova la soluzione: “Siccome non abbiamo vinto nulla durante gli anni ’90, perché non affidarci a colui che ha vinto di più?”
Ragionamento che non fa una piega ed ecco che, nel 1999, arriva Phil Jackson, a spasso da un anno dopo aver salutato la panchina dei Bulls. Nella sua prima stagione a Los Angeles, Coach Zen sbaraglia tutto e tutti, conquistando il titolo e la bella figlia di Jerry, Jeanie.
I Lakers vinceranno altri due titoli consecutivamente, portando il bottino della famiglia Buss a quota 8, che aggiunti ai due conquistati con le Sparks, fanno ben 10. Ma non è finita qui.
Dopo il fallimento della stagione 2003-04, quella del cosiddetto “Dream Team” e delle Finals perse contro i Pistons, Jerry e il GM Mitch Kupchak (arrivato nell’estate del 2000 dopo che West decise di prendere un’altra strada), arrivano alla conclusione che è ora di cambiare qualcosa.
Ecco che, allora, avviene la trade più dolorosa, ma necessaria, della carriera da proprietario di Buss. Shaquille O’Neal viene ceduto ai Miami Heat, in cambio di Brian Grant, Caron Butler e Lamar Odom. Ma ogni decisione porta le sue conseguenze, positive o negative che siano.
Per la seconda volta in quasi trent’anni, i Lakers non accedono ai playoff, tanto che si iniziano ad avere rimorsi sulle mosse estive e sulle vere qualità di general manager di Kupchak, reo di non saper amministrare le volontà di un giocatore, Kobe Bryant, vero orchestratore delle manovre dalle parti dello Staples Center.
La dinastia giallo-viola, quella che per lunghi anni ha dominato la lega, tra gli anni ’80 e primi 2000, è in serio pericolo di estinzione. La stella del numero 8, poi 24, non è sufficiente ad illuminare lo stardom losangeleno. I tempi d’oro si stanno esaurendo, ma il viola rimane, vivo come non mai nel cuore di Jerry Buss.
Nel frattempo, dopo dieci anni di onorata proprietà, decide di vendere le Sparks al miglior offerente, il Williams Group Holdings. Così, gli rimangono solo i Lakers che dopo quasi un lustro di delusioni, nel febbraio del 2008 tornano a sperare in qualcosa di più.
Difatti, dai Memphis Grizzlies arriva Pau Gasol. Jerry si dichiara molto contento della trade e speranzoso in un ritorno immediato alle Finals. E così è.
Ad attendere i Lakers ci sono quei Celtics che rinverdiscono le memorie del vecchio Buss, quei Celtics affrontati numerose volte negli atti conclusivi durante l’era dello Showtime. Ma Garnett, Pierce, Allen e compagni appaiono molto più affamati, chiudendo il discorso in sei partite.
I due anni successivi, però, saranno come Jerry li voleva, vincenti. A fare le spese della fame di vittoria di Kobe e soci saranno prima i Magic, del futuro acquisto Dwight Howard, e poi proprio gli uomini in bianco-verde. L’ennesima gioia per un uomo ormai arrivato agli ottant’anni, ma ancora vispo e attivo come se fossero i primi anni.
Poi, nel 2012, arriva la meritata introduzione nell’Hall of Fame con un discorso commovente con il quale ringrazia tutti i suoi giocatori, staff tecnico e dirigenti che si sono susseguiti nel corso dei suoi trent’anni di servizio all’organizzazione. Una specie di elogio velato alle sue doti di imprenditore e di owner, ma lecito. Ma se si va a leggere tra le righe, in quel discorso c’è un pizzico di malinconia e di scetticismo per quello che sarà.
Difatti, poco tempo dopo, Jerry viene ricoverato per un indefinito problema intestinale. Per qualche settimana rimane lontano dallo Staples Center, tanto che tutti gli addetti ai lavori si chiedono il perché di questa sua assenza così prolungata.
Ma tutto sembra tornare alla normalità non appena Jerry torna ad apparire in pubblico, un po’ emaciato e provato, ma comunque sorridente con il suo immancabile capello platinato.
All’inizio della stagione in corso, però, viene fatto sapere che Buss non presiederà a nessuna gara interna dei Lakers per problemi di salute non specificati. Il 27 gennaio compie i tanto agognati 80 anni, ma non è un compleanno felice.
Il 14 febbraio viene resa pubblica la sua malattia. Jerry ha il cancro e ormai non c’è più nulla da fare. Il suo corpo sta cedendo, ma la sua mente, nell’ultimo anno e mezzo ha combattuto una battaglia più dura, cercando di rimanere vicino alla famiglia e alla squadra nonostante sapesse quale sarebbe stato il suo destino. Una battaglia silenziosa, silenziosa come la sua morte avvenuta la mattina del 18 febbraio, al Cedars-Sinai Medical Center.
Il commissioner David Stern commenterà subito: “Abbiamo perso un visionario, una persona che ha influenzato positivamente il mondo del basket e non solo. Gli renderemo sicuramente omaggio anche negli anni a venire.”
E l’omaggio glielo rende Kobe Bryant, prima della partita del 20 febbraio contro gli acerrimi rivali di una vita, i Boston Celtics. Parole toccanti che confermano tutta la stima nei confronti di quello che è stato come un padre per molti giocatori come lui e prima di lui.
Così, anche noi lo abbiamo voluto ricordare, con le sue tante vittorie, ma anche i suoi tanti vizi e vezzi, come quello per l’alcol, le donne, le macchine e il gioco d’azzardo che più di una volta lo hanno messo nei guai. Come il 29 maggio del 2007, quando venne sorpreso ubriaco alla guida insieme ad una ventitreenne. Ma anche questo era Jerry Buss.
Personal trainer e grande appassionato di sport americani. Talmente tanto che ho deciso di scrivere a riguardo.
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R.I.P Jerry