Quando un atleta del calibro di Kobe Bean Bryant annuncia il ritiro, l’ombra della nostalgia fa capolino, nonostante la notizia sia tutto men che un fulmine a ciel sereno, e nonostante Kobe non sia più Kobe già da qualche anno.

Ha cessato di esserlo il 12 aprile del 2013, quando si ruppe il tendine d’Achille a quattro partite dalla fine della Regular Season, contro Golden State; stava giocando benissimo, gestendo a tal punto il proprio declino atletico da regalare la sensazione di dominare. A 34 anni però, spezzarsi un tendine e poi tornare è impresa che appartiene al reame dell’impossibile.

12366581_10153793182134521_1325542239_nKobe raccolse ugualmente la sfida, ma quando rientrò, fu chiaro a tutti che non era più lo stesso giocatore: qua e là arrivarono delle belle partite, certo, ma l’infortunio aveva lasciato un segno indelebile sul fisico di un agonista che aveva usato il proprio corpo come se appartenesse a qualcun altro, fino a esaurirne le risorse.

Nonostante una carriera ricca di successi e traguardi, chi scrive ha la sensazione che Kobe non si sia tolto tutte le soddisfazioni alle quali ambiva, e questo offre la misura sia del suo cannibalismo merckxiano, sia di quanto alta fosse l’autoimposta asticella.

D’altronde, non si diventa Bryant per caso. Kobe Bean è sempre stato un atleta di categoria superiore, ma non uno di quei rarissimi specimen capaci di fare la differenza solo con le proprie qualità fisiche. Viene da una famiglia di giocatori NBA (papà Joe, ma anche lo zio materno, Chubby Cox), quindi c’era una buona base genetica di partenza, ma l’elemento preponderante della sua figura cestistica è la feroce determinazione.

Vincere è questione d’orgoglio, di ostinazione nel perseguire la meta, anche a costo di esporsi a figuracce, e anche in quelle serate nate storte, in cui giocatori più furbi (nell’accezione negativa del termine) si limitano a costeggiare la gara, pur di non incorrere nel Peccato Capitale della forzatura, e tanto peggio se intanto i compagni annaspano.

L’obiettivo non era avere una bella carriera, confortevole (quella, in fondo, l’aveva già avuta papà Joe Bryant, incompresa ala piccola di 2.08 che evoluì tra Sixers, Clippers e Rockets, prima di passare in Italia, tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia), ma di vivere una costante sfida con i limiti del proprio talento.

È il suo modo di essere, privo di compromessi, e se pensate che sia un difetto, potreste anche avere ragione, ma tenete conto che la carriera di Bryant è durata vent’anni, e che ha cinque anelli. Nel corso della sua epopea cestistica, Kobe ha vinto un quarto dei titoli virtualmente a disposizione, nonostante sia passato per due ricostruzioni (quella post-Shaq era inevitabile, mentre l’altra, nel 2011, è stata provocata dalle scelte opinabili di Jim Buss, che hanno chiuso con almeno due anni d’anticipo la finestra di opportunità del Mamba).

12388227_10153793183244521_1381414661_nL’anello numero 6 lo ha eluso, ma sono quisquilie; il paragone con Michael Jordan (che ne ha appunto vinti sei) è ingiusto verso qualunque cestista, perché, di là dal numero di campionati vinti, la carriera di MJ è stata un unicum irripetibile.

Ai cestisti “posteri”, è spettato l’improbo compito di ricalcarne le gesta, mentre i media partivano dall’assunto inciso sul basamento della statua che capeggia dinanzi allo United Center: “Il migliore che ci sia mai stato, il migliore che mai ci sarà”, secondo uno schema tipico di quegli anni, quando a volte diventava difficile distinguere tra macchina promozionale di NBA e Nike, e giornalismo.

Kobe ha sfidato l’assioma, e se molti connotano l’atteggiamento di Kobe come hybris, la tracotanza di chi si paragona agli Dei, Jordan riconobbe invece il fuoco sacro, quel “drive” che il dizionario inglese/italiano definisce come “la determinazione e l’ambizione di una persona a raggiungere un obiettivo”.

Per molti appassionati, e per tanti, troppi giornalisti, la carriera dell’uomo chiamato come una bistecca si risolve nel paragone (perdente) con Michael Jordan, e quindi, in un sostanziale fallimento.

È una leggenda, eppure tutto quel che sento, è che gioca e tira male, che è ora di appendere le scarpe al chiodo”.

Dopo l’annuncio del ritiro del numero 24 gialloviola, destinato ai rafter dello Staples Center, Kevin Durant ha detto senza mezzi termini di non apprezzare il modo in cui i media trattano Kobe, spargendo molto più inchiostro per descriverne il declino, di quanto ne abbiano versato per immortalarne l’apogeo.

È un’affermazione che trova conferma in tonnellate di articoli fitti di “fonti anonime” pronte a gettare fango, e alle celebrazioni obtorto collo dedicate ai momenti migliori di Bryant, che, a dispetto degli 81 punti contro Toronto, dei quattro cinquantelli consecutivi del 2007, o della striscia di nove gare sopra quota 40 del 2003 (in totale, ha toccato quota 40 per 134 volte in carriera), si collocano per lo più ai Playoffs.

In Postseason Kobe ha tenuto una media di almeno 30 punti in cinque diverse occasioni, e ha segnato 12 volte più di quaranta punti. Si va dai 45 con cui, nel 2001, fece capire agli Spurs che non c’era trippa per gatti (spingendo Horace Grant a parlare di un fantomatico “numero 23”), fino ai 40 tondi contro i Magic, per inaugurare la Finale 2009.

Ricordiamo tante partite memorabili; Gara 4 contro Indiana, con tre canestri da fantascienza, oppure, nel 2001 contro i Sixers, quando rispose allo 0-1 iniziale con 31, 32 punti (e otto canestri consecutivi che tagliarono le gambe ai ragazzi di Larry Brown), andando ad un assist dalla tripla doppia in Gara 4.

Nel 2002 la vera Finale fu quella contro Sacramento: 7 partite durante le quali accadde di tutto. Dopo la vittoria in Gara 1 alla Arco Arena, il servizio in camera recapitò a Kobe il famoso panino “avariato”, che lo stese in Gara 2 e 3. In Gara 4 Robert Horry fece il suo personale miracolo – da quel giorno, San Robert Horry -, e Kobe chiuse la serie con tre partite da 30, 31 e ancora 30 punti.

12380034_10153793182354521_1117882368_nAnche nella stagione più nera, il 2004, Bryant fece ugualmente il suo, prima contro San Antonio, sotto 2-1 nella serie, con 42 punti di determinazione assoluta, del tipo “questa non la vincete, magari alla fine vi portare a casa la serie, ma questa sera potete solo perdere”, e poi in Finale, quando una sua tripla portò Gara 2 all’Overtime, iniziato con 2 suoi canestri e 2 assist per Shaquille O’Neal, in quella che sarà poi l’ultima vittoria di The Combo.

Anche negli anni più duri, quelli con Smush Parker e Kwame Brown, a Kobe riuscì qualche impresa, come nel 2007, quando, al primo turno, fece spaventare la Phoenix di Mike D’Antoni, giocando da facilitatore per i compagni e portando la serie sul 3-1 con un canestro allo scadere di Gara 4, per poi sfiorare il capolavoro in Gara 6, con 50 punti, e una vittoria sfumata al supplementare.

Nel 2008 arrivò un MVP abbastanza incomprensibile (era migliorata la squadra, e non Kobe, che giocava così da due anni, e avrebbe giocato così altre due stagioni), la Finale persa contro Boston, e altre due grandi cavalcate coronate con altrettanti Larry O’Brien Trophy, conquistati da protagonista assoluto e MVP delle serie, nel 2009 e nel 2010.

Parliamo di un giocatore undici volte primo quintetto All NBA, nove volte primo quintetto difensivo (non sempre meritatissimo, ma comunque record eguagliato solo da MJ, Kevin Garnett e Gary Payton), quattro volte MVP dell’All Star Game, unico nella storia della Lega a vantare 30.000 punti e 6.000 assist, con cinque anelli di campione NBA e due ori olimpici.

Si è indugiato a tal punto sui difetti di Kobe Bryant, da far dubitare che si stia parlando di uno dei best-ever. Qualche anno fa Federico Buffa disse che non entrava tra i suoi primi dieci: a noi non piacciono le classifiche –forse perché non le sappiamo fare– ma se con “primi dieci” intendiamo i più forti in assoluto (siano poi effettivamente 8 o 12, poco importa) pensiamo che quest’affermazione meriti di essere aggiornata.

Non sono tanto le cifre snocciolate poco sopra a parlare per lui, quanto l’impatto sul gioco, la costanza ad alto livello; oggi l’NBA è popolata di giocatori che ripetono i suoi movimenti, cresciuti sognando di essere come lui, da Paul George fino a Kawhi Leonard, che parla poco delle sue fonti di ispirazione, ma basta vedere certi suoi jumper per capire da quale albero è caduta la mela.

Da un punto di vista tecnico, Bryant si è costruito un arsenale di movimenti con pochi eguali, aggiungendo ogni estate qualcosa di nuovo: all’inizio il jumper dalla media, poi una maggior cura del passaggio e la difesa (durante il primo three-peat era capace di schienare chiunque, dai playmaker alle ali piccole, oltre ad avere la responsabilità di giocare da initiator del Triangolo in attacco).

Via via, ha cesellato dettagli, variando incessantemente i movimenti go-to, imparando a usare la sinistra bene quanto la destra, rubando l’uso del tabellone a Tim Duncan, estendendo il range di tiro oltre la linea da tre, tanto che Kareem disse “Appena varcata la metà campo, è già pericoloso”, e poi compensando l’inevitabile calo atletico con un gioco di post che oggi non ha probabilmente eguali.

Kobe ha spremuto ogni oncia del suo talento e si è issato ben più in alto di quanto avessimo immaginato quando, diciassettenne, annunciò che avrebbe saltato il college e sarebbe andato in NBA. Come scrive nella lettera che ha rivolto alla pallacanestro, la sua è la parabola di un innamorato di questo sport, uno studente del gioco, con una sola arma segreta: il lavoro.

Chi scrive ama il basket, e quindi adora il modo in cui LeBron taglia il campo in due disegnando traiettorie impossibili, va in crisi mistica quando Kevin Durant spara un lay-up-three, e strabuzza gli occhi guardando Anthony Davis fare cose che non è giusto sia in grado di fare al malcapitato di turno.

Però – c’è un però – non scorgo in loro la stessa dedizione maniacale di Bryant, lo stesso religioso fervore che convinse Jerry West d’aver per le mani un diamante. Kobe ha sempre approcciato il Gioco con un impeto agonistico che è più Furino che Platini, che al “vincere facile” dei narcisi ha sempre preferito la Sfida (e, infatti, tra i suoi avversari preferiti elenca Bruce Bowen, Raja Bell, e soprattutto, Tony Allen) e forse anche per questo, è diventato uno dei più grandi closer della storia del gioco.

Per Kobe Bean Bryant è arrivato il momento dei bilanci, da qui sino alla fine della stagione angelena, deragliata rispetto ai propositi estivi, ma che trova nuova linfa nel farewell tour di quello che è diventato il giocatore più rappresentativo della franchigia, e che passerà il testimone ai giovani leoni, un po’ come, vent’anni fa, fece Byron Scott, ultimo membro dello Showtime, con un Kobe diciassettenne “tutto ginocchia e orecchie” (cit.).

Da appassionati di questo sport, ci uniamo alla raccomandazione che gli ha rivolto sua Maestà in persona, Michael Jordan: “Divertiti, e comunque vada, goditela, non lasciare che te la rovinino, qualunque cosa capiti, buona o cattiva; enjoy it, man”.

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