Vi ricordate dove eravate, cosa facevate, nel giugno del 1996?
Il 26 giugno di quell’anno Kobe Bryant indossava il suo primo cappellino “ufficiale” da giocatore NBA, quello degli Charlotte Hornets, subito sostituito con uno gialloviola.
17 anni dopo, il “Mamba” è diventato una delle icone di Los Angeles, al pari della collina di Hollywood, una delle poche “bandiere” rimaste nello sport americano, sempre più governato dalle leggi dello show-business, degli sponsor e del salary cap.
In questi anni, ne ha passate di tutti i colori: ha vinto 5 anelli e perso altre 2 finali, mancando i Playoffs una sola volta, nel 2005. Ha giocato 15 All Star Game, ed è diventato il quarto miglior realizzatore di tutti i tempi. Ha rischiato la prigione a causa di una accusa per stupro, e subìto ogni tipo di critica per il suo egoismo in campo e per il suo carattere abrasivo fuori dal campo.
Ha giocato con ogni tipo di compagno di squadra: con playmaker come Smush Parker o come Steve Nash, con centri come Shaquille O’Neal o come Kwame Brown. Lui c’è sempre stato per i Lakers, nella buona e nella cattiva sorte. Tante volte è caduto, e altrettante volte si è rialzato più forte e più determinato di prima.
Ora, a 34 anni suonati, lo aspetta la prova più difficile della sua lunga e gloriosa carriera: la lacerazione del tendine d’Achille, un infortunio abbastanza raro ma ahimè classico per giocatori con alto chilometraggio sulle spalle e che spesse volte ha causato il ritiro di un atleta.
Conoscendolo, non sarà questo il suo caso: tutti sono sicuri che la determinazione feroce, quasi ossessiva, che ha buttato sul campo in questi anni di carriera farà da carburante per il suo ritorno sul parquet. Si, ma in quali condizioni?
Questa sembra essere la vera domanda oggi: per tutti questi 17 anni una delle costanti della NBA è stato il trentello, quarantello, cinquantello di Kobe pronto a esplodere da un momento all’altro, quei suoi finali di partita in cui i compagni non esistono, esistono solo una palla, un canestro, e 9 nemici da dribblare, da saltare, da distruggere.
Siamo pronti ad accettare un Kobe meno esplosivo, meno veloce, meno dominatore nei finali di partita?
Ed i Lakers saranno capaci di fargli trovare una squadra nella quale non debba sentirsi in dovere di giocare 92 minuti consecutivi senza un singolo secondo di riposo, allorquando non essendo né il coach né il GM in grado di dirgli di uscire, ha dovuto urlarglielo il suo stesso corpo?
Max Giordan
segue l’NBA dal 1989, naviga in Internet dal 1996.
Play.it USA nasce dalla voglia di unire le 2 passioni e riunire in un’unico luogo “virtuale” i tanti appassionati di Sport Americani in Italia.
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solo un’annotazione per l’autore dell’articolo cmq splendido: il tendine d’Achille nn si lacera si rompe solamente